
Le comunicazioni tramite messaggi WhatsApp tra il lavoratore e il datore di lavoro, riguardanti l’andamento e la natura della malattia, non possono sostituire il certificato medico o avere un valore di carattere medico-legale.
A dirlo è la Corte di Cassazione che con sentenza 26956/2025 ha respinto il ricorso di un dipendente di una ditta di trasporti avverso il suo licenziamento per superamento del periodo di comporto.
Requisito della “Malattia Particolarmente Grave”
Il fulcro della controversia era l’applicazione dell’art. 63 del CCNL Logistica, Trasporto merci e Spedizioni, che prevede l’esclusione dal periodo di comporto (fino a 245 giorni) delle assenze dovute a “malattie particolarmente gravi”.
I giudici di merito hanno interpretato tale clausola nel senso di riferirsi a patologie che richiedevano la sottoposizione a terapie salvavita.
La Corte territoriale aveva rilevato che non era stato né allegato né provato che la malattia sofferta dal lavoratore fosse stata “particolarmente grave” o che avesse richiesto una terapia salvavita o assimilabile.
Documentazione medica inadeguata
La Corte ha sottolineato che la documentazione presentata dal lavoratore non supportava la tesi della gravità.
I certificati medici prodotti non presentavano infatti barrata la casella relativa alla “Patologia grave che richiede terapia salvavita”.
La Corte territoriale (e la Cassazione, nel confermarne l’operato) ha rilevato che tutta la documentazione medica inviata era priva dell’indicazione “patologia grave che richiede terapia salvavita”, sottolineando che “nessun valore di carattere medico-legale poteva essere attribuito allo scambio di messaggi Whatsapp tra il lavoratore e il Responsabile di filiale con cui comunicava l’andamento e la natura della malattia”.
Rigetto dei motivi di ricorso
La mancanza di prova diretta e legale della gravità della patologia ha portato a ritenere infondati i principali motivi di ricorso del lavoratore.
Il lavoratore aveva censurato il fatto che la Corte territoriale gli avesse erroneamente addossato l’onere di provare la “particolare gravità” della malattia. Tuttavia, la Corte di Cassazione ha rigettato questo motivo (e il secondo) ritenendolo non fondato, implicando che l’onere probatorio fosse necessario e non soddisfatto.
Essendo accertato che la malattia non rientrava nelle esclusioni previste dal CCNL in quanto la sua particolare gravità (richiesta l’equivalenza con terapie salvavita) non era stata dimostrata, i periodi di assenza sono stati conteggiati e il superamento del periodo di comporto è risultato legittimo.
In conclusione, la mancanza di prova sulla gravità della malattia, intesa come patologia richiedente terapia salvavita e specificamente documentata come tale, ha supportato la decisione della Corte territoriale di respingere le domande del lavoratore e ha portato la Corte di Cassazione a rigettare il ricorso in toto.



