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Crocefisso, i giudici di Strasburgo danno ragione al Governo italiano

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Il crocefisso appeso al muro delle classi pubbliche non è un elemento di “indottrinamento: le autorità hanno agito nei limiti della discrezionalità di cui dispone l’Italia nel quadro dei suoi obblighi di rispettare, nell’esercizio delle funzioni che assume nell’ambito dell’educazione e dell’insegnamento, il diritto dei genitori di garantire l’istruzione conformemente alle loro convinzioni religiose e filosofiche”. È questo l’atteso pronunciamento della ‘Grande Chambre’ della Corte europea per i diritti dell’uomo di Strasburgo, organismo dipendente dal Consiglio d’Europa, che è istituzione diversa dall’Unione europea, sulla causa avviata nel 2002 (in Italia), poi nel 2006 a Strasburgo, dal legale della signora Lautsi, di origini finlandesi, mamma di due figli in età scolare frequentanti un istituto di Abano Terme: la donne, a cui presto si sono accodate oltre 20 associazioni laiche, ha sempre sostenuto che la presenza del simbolo del cristianesimo in aula è un’ingerenza incompatibile con la libertà di pensiero e il diritto ad un’educazione e ad un insegnamento conformi alle convinzioni religiose e filosofiche dei genitori.
Nella prima sentenza, era il 3 novembre 2009, la Corte europea dichiarò ammissibile il ricorso della signora, poiché la presenza del crocefisso avrebbe violato l’articolo 2 del protocollo n. 1 (diritto all’Istruzione) e l’art. 9 (diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione) della Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo. Vibrante, nell’occasione, fu la reazione del Governo italiano, che subito annunciò ricorso. Il 28 gennaio 2010 il caso fu affidato all’esame di appello della ‘Grande Chambre’, che il 30 giugno scorso ascoltò in seduta pubblica a Strasburgo le parti interessate e ricevuto anche le memorie presentate da “terze parti”.
Il 18 marzo 2011 è giunta la sentenza definitiva, approvata con 15 voti favorevoli e due contrari: secondo la Corte europea dei diritti dell’uomo, “se è vero che il crocefisso è prima di tutto un simbolo religioso, non sussistono tuttavia nella fattispecie elementi attestanti l’eventuale influenza che l’esposizione di un simbolo di questa natura sulle mura delle aule scolastiche potrebbe avere sugli alunni”.
“La Corte – continua la sentenza – constata che, nel rendere obbligatoria la presenza del crocefisso nelle aule delle scuole pubbliche, la normativa italiana attribuisce alla religione maggioritaria del Paese una visibilità preponderante nell’ambiente scolastico: (…) il fatto che, nel programma scolastico, le sia accordato uno spazio maggiore rispetto alle altre religioni non costituisce di per sé un’opera d’indottrinamento. La Corte sottolinea altresì che un crocefisso apposto su un muro è un simbolo essenzialmente passivo, la cui influenza sugli alunni non può essere paragonata a un discorso didattico o alla partecipazione ad attività religiose”.
“La Corte ritiene inoltre che gli effetti della grande visibilità che la presenza del crocefisso attribuisce al cristianesimo nell’ambiente scolastico debbono essere ridimensionati alla luce di quanto segue: tale presenza non è associata a un insegnamento obbligatorio del cristianesimo; secondo il Governo lo spazio scolastico è aperto ad altre religioni (il fatto di portare simboli e di indossare tenute a connotazione religiosa non è proibito agli alunni, le pratiche relative alle religioni non maggioritarie sono prese in considerazione, è possibile organizzare l’insegnamento religioso facoltativo per tutte le religioni riconosciute, la fine del Ramadan è spesso festeggiata nelle scuole…); non sussistono elementi tali da indicare che le autorità siano intolleranti rispetto ad alunni appartenenti ad altre religioni, non credenti o detentori di convinzioni filosofiche che non si riferiscano a una religione”. Alla luce di tutte queste considerazioni, la Corte ha concluso che “il diritto della ricorrente, in quanto genitrice, di spiegare e consigliare i suoi figli e di orientarli verso una direzione conforme alle proprie convinzioni filosofiche è rimasto intatto”.
“Profonda soddisfazione” per la sentenza è giunta dal ministro dell’Istruzione, Mariastella Gelmini, secondo la quale nel pronunciamento della corte di Strasburgo “si riconosce la gran parte del popolo italiano. Si tratta – ha detto il ministro – di una grande vittoria per la difesa di un simbolo irrinunciabile della storia e dell`identità culturale del nostro Paese. Il crocefisso sintetizza i valori del Cristianesimo, i principi sui cui poggia la cultura europea e la stessa civiltà occidentale: il rispetto della dignità della persona umana e della sua libertà. E` un simbolo dunque che non divide ma unisce e la sua presenza, anche nelle aule scolastiche, non rappresenta una minaccia – ha concluso Gelmini – né alla laicità dello Stato, né alla libertà religiosa”.
Anche il ministro degli Esteri, Franco Frattini, ha accolto “con grande soddisfazione” la decisione della Grande Camera: “mi auguro che dopo questo verdetto l`Europa torni ad affrontare con lo stesso coraggio il tema della tolleranza e della libertà religiosa: ha vinto il sentimento popolare dell`Europa. Perché la decisione interpreta soprattutto la voce dei cittadini in difesa dei propri valori e della propria identità”.
Il commento della Santa Sede è stato affidato al portavoce vaticano, padre Federico Lombardi, secondo cui “si tratta di una sentenza assai impegnativa e che fa storia. (…) Si riconosce dunque, ad un livello giuridico autorevolissimo ed internazionale, che la cultura dei diritti dell’uomo non deve essere posta in contraddizione con i fondamenti religiosi della civiltà europea, a cui il cristianesimo ha dato un contributo essenziale”.
Delusione per l’esito della sentenza è invece giunta da Massimo Albertin, il medico di Abano Terme sposato con Solile Lautsi, la promotrice del ricorso: “Il pronunciamento di Strasburgo – ha detto Albertin – mi delude, molto, perché la prima sentenza su questa vicenda era clamorosamente chiara. Pare che sia tutto legato al ‘margine di apprezzamento’ sull’applicazione dei diritti umani, per cui la Corte può decidere su determinate materie di lasciare più margine ai singoli Stati. Ma se ci sono dei diritti da far rispettare, non si capisce perché questi in Italia possano essere diversi da quello che sono in Francia o in altri Paesi dell’Unione”. Di parere contrario ai giudici di Strasburgo è anche il rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni, per il quale “nell’edificio pubblico ci deve essere spazio solo per simboli condivisi e non di una parte, anche se è rispettabile e di maggioranza: dire che il crocefisso è simbolo culturale è, a mio parere, mancargli di rispetto. E non mi ci riconosco come simbolo culturale”.
Rammarico, infine, è stato espresso pure da parte della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (Fcei), convinta che “il ‘caso italiano’ sia stato ancora una volta occasione di una normativa eccezionale, che non realizza pienamente uno Stato laico, in cui tutti possano riconoscersi, senza discriminazione di credo religioso o altro (art. 3 della Costituzione italiana). I crocifissi continueranno a essere presenti nelle aule scolastiche e nei tribunali, ma per le minoranze che hanno ricevuto i diritti civili e di culto poco più di 150 anni fa, come le chiese evangeliche, questi crocifissi non rimanderanno a una comune appartenenza o cultura italiana”.