
Qualche giorno fa abbiamo riportato una lettera di una studentessa di un liceo del ravennate, diffusa e fatta diventare virale dal docente e scrittore Enrico Galiano, che parlava concretamente di disagio giovanile e del difficile rapporto tra studenti e insegnanti.
A distanza di qualche giorno una compagna di scuola dell’alunna ha scritto un’altra lettera sullo stesso tema, pubblicata sul giornale Il Nuovo Diario Messaggero. Ecco le sue parole: “Trovo sconfortante, e per certi versi anche frustrante, pensare che, per riuscire a studiare intere pagine di contenuti o, nel caso degli insegnanti, per spiegare nozioni in sequenza serrata, dobbiamo annullarci come persone. Tutto questo per stare dietro a un programma imposto da chi, con ogni probabilità, non ha la minima idea di come funzioni davvero la scuola oggi, oppure ne ha una visione completamente distorta”.
“Conflitto latente tra studenti e professori”
“Negli anni, la scuola si è trasformata in una sorta di fabbrica di nozioni: si accumulano informazioni spesso spiegate in modo frettoloso, senza lasciare spazio alla riflessione o alla comprensione profonda. Ma questa trasformazione non è certo responsabilità diretta dei nostri insegnanti. Ci è forse sfuggito che il conflitto latente tra studenti e professori, una sorta di gara su chi svolge peggio il proprio ruolo, nasce da una carenza di empatia reciproca. Gli studenti giudicano facilmente il lavoro dei docenti, senza soffermarsi sulla complessità di ciò che fanno, dimenticando che sono persone, non macchine, con pensieri, emozioni, pressioni e difficoltà. Allo stesso tempo, molti insegnanti non si rendono conto che le loro stesse pressioni, l’ansia di rimanere al passo con i tempi, di non ‘restare indietro’, finiscono per pesare anche su di noi, sulle nostre menti, sulle nostre anime”.
“La frustrazione di un professore che non viene ascoltato o non vede i risultati sperati è analoga al senso di inadeguatezza di uno studente il cui impegno non viene riconosciuto. Entrambi sono vittime di un contesto scolastico privo di reale intelligenza emotiva. Per intelligenza emotiva si intende la capacità di riconoscere le proprie emozioni, comprenderle, regolarle e, soprattutto, entrare in relazione empatica con quelle degli altri. In un ambiente educativo, ciò significa saper ascoltare attivamente, accogliere la fatica altrui senza giudicare, e creare uno spazio in cui sentirsi visti, valorizzati, umanamente accolti”.
“Non siamo gentili o comprensivi l’uno con l’altro perché percepiamo che l’altro non lo è con noi. Così, entriamo in una spirale di chiusura e sfiducia: se mi sento non compreso, smetterò anche io di provare a comprendere. Ma se questo atteggiamento continua a dominare, il circolo vizioso non potrà mai spezzarsi. Solo un cambiamento nel modo in cui ci relazioniamo può interrompere questa dinamica: serve più ascolto, più pazienza, più umanità. Perché la scuola non è solo un luogo di nozioni, ma un luogo di persone. E le persone imparano davvero solo quando si sentono accolte”, ha concluso la studentessa.
Il testo integrale della lettera che sta scuotendo la scuola
Ecco il testo integrale della lettera che è diventata virale giorni fa, attirando moltissimi commenti da parte di docenti: “Cari professori, è quasi un peccato essere arrivati così in basso da trovar necessario scrivere una lettera, ma non vi vedo soluzione. Secondo la cultura giapponese ogni persona dovrebbe possedere un ikigai, cioè uno scopo nella vita, quel qualcosa che ti fa svegliare la mattina. Bene, io l’avevo trovato nello studiare, lo facevo con passione, quasi devozione. Mi svegliavo la mattina consapevole che andare a scuola, imparare, studiare fosse il mio scopo. Poi ho iniziato a comprendere, ogni giorno di più, che non ha alcuna utilità: di utile, non mi viene spiegato nulla in modo appassionante, non vengo mai ricompensata per il duro lavoro. Quando arrivo a casa e devo aprire il libro per studiare mi viene da piangere, sento la mia mente chiudersi, bloccarsi. Quando sono in classe sento solo morte, mi guardo attorno e vedo i miei compagni con gli occhi spenti o addormentati, guardo verso di voi e vedo il nulla, solo una specie di automa che sputa parole su fatti decaduti i cui valori nascosti sono stati sepolti con le loro vittime. Continuate a ripetermi che i voti non contano, che non sono ciò che fanno una persona. Per fortuna è vero, ma giudicate ore e ore di studio, ore in cui sono stata attenta in classe, pensieri e pensieri attivati solo per essere giudicati mediocremente, e chissà poi perché, dal momento che non mi viene mai spiegata una sola volta quali siano i problemi. Quando sono in bus per arrivare a scuola, mi chiedo perché mai stia venendo, perché mai ho anche avuto la cura di mettere i libri giusti nello zaino e di fare i compiti, quando so benissimo che intanto nulla verrà ricompensato. Mi domando perché la mattina mi sono alzata per andare in un luogo dove nessuno mi vede, dove nulla mi interessa, dove si è solo di fretta e in ansia per finire un programma che nessuno sa davvero perché segue, dove mi giudicate per quindici minuti e mettete sul registro un voto immotivato su qualcosa che mi avete spiegato in modo freddo, distante e morto. Pretendete un albero altissimo, meraviglioso, possente, ma non vi curate un minimo di innaffiarlo, di fertilizzarlo, di assisterlo con un bastoncino quando il fusto è troppo fragile. Che non vi venga in mente di dire che sto solo polemizzando perché intanto ogni volta che chiedete come sto, volete sapere solo che sto bene anche se tutto va male. Non volete sapere che sto soffrendo, che vengo a scuola solo per ottenere il diploma, che non mi viene spiegato nulla di nuovo. Non volete sapere che ognuno degli alunni delle vostre classi si sente solo, disperso, in ansia, che alcuni preferirebbero morire. Esigete la sapienza, le capacità, la maturità di persone molto più mature di noi, quando siamo solo diciassettenni che non sanno nulla sul mondo. Sappiamo solo che siamo oppressi, annoiati, devastati, terrorizzati dalle vostre verifiche, dalle vostre interrogazioni, dalle vostre parole. Ho delle domande per tutti voi, siate sinceri almeno con voi stessi, perché insegnate? Quando ci guardate cosa vedete? Credete che essere insegnanti sia un lavoro sociale?”