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I docenti e gli scrutini. Alcune riflessioni

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E’ tempo di scrutini finali, il momento in cui alunni e docenti raccolgono i frutti di un intero anno di lavoro. A tal proposito, ritorna in auge un tema molto discusso: la bocciatura è uno strumento utile? Beh, la discussione potrebbe coinvolgere, in maniera interessante, docenti, allievi, genitori, psicologi e pedagogisti e, data la complessità del tema, non riusciremmo comunque ad ottenere una risposta univoca. Già, perchè, così come non esiste la strategia didattica-panacea, l’utilità della bocciatura va anch’essa contestualizzata. Sta di fatto che essa è normativamente prevista e può essere tranquillamente utilizzata, al di là di ogni forma estrema di buonismo.

Nella mia carriera, ho osservato diverse forme di risposta alla bocciatura: dalla reazione totale con un proficuo prosieguo degli studi ad un totale scoraggiamento con conseguente forte calo motivazionale. Non si boccia, chiaramente, a “cuor leggero” e vanno tenute in considerazione diversi parametri dell’allievo: 1) profitto; 2) aspetto caratteriale; 3) storia scolastica pregressa; 4) background socio-familiare; 5) impegno profuso al di là dei risultati. Il docente è un formatore ma anche un valutatore e ha l’importantissimo compito di fornire la “cassetta degli attrezzi” a coloro che saranno i futuri “cittadini del mondo” e, soprattutto, a coloro che costituiranno la futura classe dirigente, medica, imprenditoriale, ecc. Per cui, le azioni valutative vanno ponderate, senza estremizzazioni in un senso o nell’altro.

Lo scrutinio finale dovrebbe (?) costituire il momento più alto e complesso della valutazione: da amante della “statistica”, la distribuzione dei voti dovrebbe avere un andamento gaussiano (“a campana”) con una concentrazione degli stessi intorno alla fascia 5-7 e con una “coda” sia verso la fasce più bassa (al di sotto del 5) che verso quella più alta (al di sopra del 7). Qualsiasi “scostamento” significativo da questo andamento dovrebbe spingere il docente a cercarne le motivazioni: lacune pregresse? Ritmo troppo sostenuto? Obiettivi mal-calibrati per quel contesto classe? Ecc.

Andrebbe anche seguita l’indicazione del Miur di qualche anno fa riguardo l’utilizzo dell’intera fascia di voti: dallo zero al dieci. Qui, in realtà, si può essere solo parzialmente d’accordo: in caso di insufficienza grave, un 3 è già un efficace indicatore, inutile “mortificare” l’allievo con voti ancora più bassi; analogamente, a mio avviso, un 10 va riservato a coloro particolarmente brillanti, che si sono distinti per approfondimenti autonomi e costanti e per abili competenze trasversali. Ciò al di là della griglie valutative riportate nei singoli PTOF.

Quest’articolo vuole semplicemente essere un invito a tutti i colleghi affinché valutino con serenità e, al tempo stesso, vuole evidenziare al mondo esterno alla scuola che il lavoro dell’insegnante è tutt’altro che facile e richiede passaggi delicati, oggetto di profonde riflessioni, che possono incidere in maniera significativa sul “destino” scolastico – lavorativo di un ragazzo. Non sempre quest’aspetto viene evidenziato, non sempre al docente viene riconosciuto la giusta importanza del suo ruolo: in Giappone, gli insegnanti sono gli unici non obbligati ad inchinarsi dinanzi all’imperatore perché “senza insegnanti non ci sarebbero imperatori”; in Italia, invece, si guarda troppo spesso al docente come lui che, regolarmente stipendiato, gode di tre mesi di vacanza e lavoro al massimo per 24 ore settimanali.

In realtà, tutti sanno che non è così, ma pochi si battono per far emergere questa verità.