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Il paradosso dell’educazione alla legalità

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Come fare educazione alla legalità se il contesto politico, alimentando la sfiducia nelle istituzioni, distrugge sistematicamente la fiducia nelle istituzioni che la scuola costruisce a fatica? Come superare il paradosso per cui fare educazione civile è tanto più necessario laddove il contesto generale, degradato e degenerato, sembra renderla impossibile, o “poco credibile”?

E’ una aporia di cui non si rendono conto neppure i promotori delle iniziative più benemerite di risveglio civile, laddove affermano che è ovviamente inevitabile pretendere che la “politica” (intesa, in modo riduttivo, come l’insieme degli apparati di governo e di indirizzo politico) “faccia la sua parte” ed è quindi logico dedurre che anche per loro l’educazione, da sola, è impotente a ricostruire il tessuto civile.

Una domanda posta da una giovane studentessa durante una conferenza-intervista- tenutasi a Lucca nelle sale della Provincia il 1 novembre 2014 – con alcuni testimoni della lotta antimafia (nell’ambito di una iniziativa della Fondazione Caponnetto) può forse suggerire la strada per una risposta a questo paradosso che la giovane lucidamente ha percepito.

La domanda era, più o meno, la seguente: Come è possibile per i protagonisti di questa lotta alle mafie non indignarsi con lo Stato, se sono stati affrontati inutilmente, proprio da parte loro, tanti sacrifici per combattere crimine e corruzione?

Domanda di sconcertante e inesorabile dirittura, che pone, “ingenuamente”, niente di meno che il problema del fine legittimante della lotta per la legalità.

Che senso ha lottare per i diritti e per la legalità quando non se ne consegue alcun frutto, immediato, o anche solo dilazionato nel tempo ? O quando i frutti che se ne traggono sono tanto modesti?

Che senso hanno avuto, in successione, il sacrificio di Giorgio Ambrosoli, di Carlo Alberto Dalla Chiesa, di Giovanni Falcone, di Paolo Borsellino, e di tanti altri che non è possibile nominare ?

Gli interlocutori non sono sembrati imbarazzati. Hanno risposto, mi pare, ribadendo la fede nella loro azione. Ma forse non hanno detto la cosa più importante. In realtà a dar senso a tutti quei sacrifici – altrimenti davvero insensati – c’è una sola ragione, per lo più oggi dimenticata: il dovere di fedeltà alla repubblica, che viene ancor prima di ogni fiducia verso le istituzioni e gli organi dello stato concretamente esistenti.

La fiducia nelle istituzioni è certo essenziale anche in una democrazia, ma come punto di arrivo, non di partenza. Che fare, infatti, se le persone concrete non meritano alcuna fiducia? Non c’è più salvezza, in questo caso, per la democrazia? E, se neppure le regole della legge sono sempre giuste, cioè sono volte a rendere migliori le persone, educare alla legge può davvero bastare?

Diciamolo apertamente: educare semplicemente alla legalità, alla lealtà verso la legge, al rispetto assoluto della legge e delle regole, in realtà non è sufficiente, né fuori d’ Italia, né, a maggior ragione, oggi, nel nostro paese.

La dizione “educazione alla legalità” anzi può trarre in inganno. Questa educazione di per sé non può bastare a ricostruire la fiducia nel potere, né a disciplinare i comportamenti criminogeni. Tanto meno a sconfiggere le mafie. Come fare infatti per “educare il potere”? Nessun articolo della nostra Costituzione in realtà parla di fiducia nelle istituzioni ( a parte la fiducia in senso tecnico su cui si fonda il governo nel sistema parlamentare), né essa si limita a fare del cittadino un “servo delle Leggi”, e sia pure delle Leggi con la maiuscola, per riprendere la nobile espressione platonica.

Essa impone al cittadino, anche e soprattutto,il dovere di “fedeltà alla repubblica”. E’ richiesta la fedeltà, non la fiducia, né semplicemente l’obbedienza alle leggi. Ma perché? Etimologicamente i due termini, fiducia e fedeltà, hanno la medesima radice, il termine latino “fides”, che è contemporaneamente due cose: fiducia in altri e anche lealtà verso altri, ovvero fedeltà. I due termini non sono intercambiabili.

Sono l’uno il corrispettivo dell’altro. Fedeltà è costante rispondenza alla fiducia accordata da altri ma anche, e soprattutto, ad un impegno liberamente assunto. Fiducia è sensazione di sicurezza basata sulla stima riposta in qualcuno o qualcosa Fedeltà, a differenza di fiducia, significa ed implica un atteggiamento attivo, una cittadinanza attiva, un dovere che impegna insieme governati e governanti, talvolta più i governati che i governanti, più i cittadini senza potere, che quelli dotati di potere. Essa rimanda ad un impegno liberamente assunto, e configura una sorta di obbligo alla “resistenza” morale, che si auto-impone da solo, a prescindere dal risultato concreto, che può anche essere fallimentare.

Nella vita pubblica, specie nei momenti di maggior sbandamento o di degrado, è solo dalla fedeltà, non dalla fiducia, che è possibile ripartire. Solo così si può ricostruire la comunità di governati e governanti- che si dice “repubblica”, termine caduto tragicamente in desuetudine, mai pronunciato dai cittadini, non “Stato” che è voce neutra e impersonale o “democrazia” che è termine usato ed abusato – la repubblica come comunità che nasce dalla fedeltà e che genera la speranza.

La “repubblica”, il nome che abbiamo tutti disimparato, non è lo Stato né le istituzioni, ma l’insieme dei cittadini e delle istituzioni, la “forma ideale” cui si devono conformare organi ufficiali e comportamenti individuali e collettivi. E nei momenti più gravi, quando le decisioni supreme incombono, quando il livello dei problemi costringe a scelte decisive, non c’è dubbio che anche la legislazione deve essere guidata, sostenuta e indirizzata dai cittadini della repubblica, non può essere il contrario. Le decisioni supreme, nei momenti di emergenza dello Stato, devono essere prese dai cittadini o da loro comunque condivise. La decisione suprema di scegliere la forma di Stato – repubblicana o monarchica – fu affidata non a una commissione di saggi, ma ai cittadini comuni e alla loro saggezza civile. La “scuola buona” o meglio la scuola che oggi in Italia è necessaria come l’aria per vivere, dovrebbe mettere tra le sue finalità essenziali il compito di formare questo tipo di cittadinanza, che va ben oltre l’educazione alla legalità. E’ l’educazione alla cittadinanza attiva, responsabile e deliberativa, la cittadinanza capace non tanto di rispettare le regole, quanto di costruirle, o meglio, di ricostruirle sulla base dei nuovi bisogni normativi che vanno via via sorgendo nella società globalizzata e telematica, orientandosi con la bussola dei principi costituzionali.

A questa finalità vanno riportate le competenze educative che si intende sviluppare, come anche le molteplici e radicali innovazioni didattiche, che i mutamenti oggi richiedono, a partire dalla rivoluzione digitale in atto.

Sono in buona parte le stesse innovazioni che ci suggerisce anche, coi riferimenti all’apprendimento personalizzato, all’uso degli approcci centrati sullo studente, alla formazione delle competenze creative e innovative, agli investimenti nelle competenze, la Commissione Europea ( ved. Rethinking Europe, Investing in skills for better socio-economic outcomes, European Commission, 20/11/2012) che in questo campo però, diversamente che nel campo finanziario, non si è mai curata di dotarsi degli strumenti necessari per tradurre i principi in realtà.

Anche per questo è di qui, dall’iniziativa civile, che bisogna ripartire per superare la crisi, e quindi per avere una scuola che punti sulla qualità della formazione, risorsa essenziale per assicurare alle nuove generazioni il lavoro complesso, flessibile e articolato che sarà necessario nella “società della conoscenza” ( Lisbona 2000), e non quell’ ammasso disparato e continuamente mutante di “jobs” che oggi si vorrebbe irresponsabilmente mettere al suo posto . E’ investendo risorse in questo risorgimento civile e morale che si può mettere in moto il vero risorgimento economico, come sapevano benissimo i veri liberali di un tempo: “Il risorgimento politico di una nazione non va mai disgiunto dal suo risorgimento economico.

Le condizioni dei due progressi sono identiche. Le virtù cittadine, le provvide leggi che tutelano del pari ogni diritto, i buoni ordinamenti politici, indispensabili al miglioramento delle condizioni morali di una nazione, sono pure le cause precipue de’ suoi progressi economici. Là dove non vi è vita pubblica, dove il movimento nazionale è fiacco, non sarà mai industria potente. Una nazione tenuta bambina di intelletto, cui ogni azione politica è vietata, ogni novità fatta sospetta e ciecamente contrastata, non può giungere ad alto segno di ricchezza e potenza, quand’anche le sue leggi fossero buone, paternamente regolata la sua amministrazione.”