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Indicazioni Nazionali: a chi spetta decidere cosa insegnare e perché? Un dibattito politico e culturale che dura da più di un secolo

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Le polemiche di questi giorni sulle Indicazioni Nazionali per infanzia e primo ciclo fanno emergere una questione pedagogica che dura da un secolo (ma forse persino di più).

Il tema è: quali sono i limiti e gli ambiti entro i quali si può esprimere l’autonomia scolastica nella definizione e nella attuazione delle pratiche formative?
Semplificando molto il problema: ma il potere politico può decidere tutto (o quasi)? quale spazio resta alla scuola?
Il tema è davvero complesso ed è da più di un secolo che se ne discute.

Proprio in queste ore, quasi casualmente, mi è capitato di trovare nella mia libreria un volumetto prodotto nel 1982 dal Movimento di Cooperazione educativa (Per una discussione sulla scuola elementare) e dedicato quasi interamente al dibattito, vivacissimo in quel periodo, sulla revisione dei Programmi elementari, quelli che sarebbero stati poi approvati nel 1985.
Nel volumetto c’è un breve ma interessante intervento di Fiorenzo Alfieri (era stato maestro elementare, aveva dato un contributo enorme allo sviluppo del MCE negli anni ’60 e ’70, ma era stato anche un amministratore comunale a Torino per quasi tre decenni). Quel breve articolo fornisce una risposta sintetica ma esauriente.
Ed ecco che cosa scriveva: “Non posso nascondere una certa insofferenza nei confronti di una discussione sulla scuola presente e futura che continui ad essere condotta esclusivamente all’interno della scuola stessa. Noi che siamo contro il corporativismo stentiamo, quando è il momento, ad accorgerci che ragioniamo di scuola in termini prevalentemente corporativistici”.
“Non basta ad esempio –
aggiungeva Alfieri – richiedere il pluralismo all’interno della commissione per la stesura dei nuovi programmi della scuola elementare per dimostrare la nostra attendibilità storico scientifica”.
E ancora: “Giustamente il pensiero pedagogico internazionale ha ormai consolidato la convinzione che la responsabilità dell’educazione dei futuri e anche degli attuali cittadini ricade sulla società e non sulla scuola; è la società ad avere interesse per l’educazione dei suoi componenti ad avere i mezzi per investire in quella direzione ad avere la capacità di verificare i risultati dei processi posti in essere”.

“I contenuti dell’educazione – proseguiva ancora– non debbono pertanto essere arbitrariamente cercati dagli educatori di professione ma debbono essere imposti dalla società. Abbiamo bisogno della riforma certamente ma non tanto della riforma della scuola; abbiamo bisogno di un progetto generale di educazione sociale che dia luogo a un sistema organico di occasioni educative per i cittadini di tutte le età”.

E, per chiarire ancora meglio il punto Alfieri affermava: “I programmi scolastici diventano a questo punto indispensabili e importantissimi perché ci deve pur essere scritto da qualche parte che è obbligatorio fornire a tutti gli strumenti necessari per comprendere, criticare e controllare la realtà e che la scuola deve essere la sede in cui le esperienze di vita si trasformano in elementi di cultura e non viceversa”.

Perché, e qui arriviamo al punto decisivo, “non sono gli insegnanti o gli organismi gestionali della scuola a decidere che cosa debbono sapere i cittadini” in quanto “la libertà dell’insegnante riguarda la sua capacità di ottenere gli obiettivi della scuola e non la definizione di tali obiettivi”.

Si tratta – ci sembra – di una bella lezione di pedagogia che potrebbe essere molto utile di questi tempi, sottolineando un punto: Alfieri, la cui formazione pedagogica affonda le radici nell’attivismo pedagogico (era stato allievo di Francesco De Bartolomeis), parlava di responsabilità della società da non confondere neppure lontanamente con il potere politico del momento.
Le finalità dell’educazione non possono cioè essere decise da chi detiene il potere in un dato momento storico ma devono fare riferimento a valori condivisi che, nel caso nostro, sono contenuti e declinati nella Carta Costituzionale scritta da chi aveva deciso di chiudere definitivamente con pratiche autoritarie e antidemocratiche.