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Intelligenza artificiale, uno strumento per una scuola inclusiva [INTERVISTA]

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Il tema dell’intelligenza artificiale e dei suoi risvolti educativi e scolastici sta assumendo un rilievo sempre più ampio.
Oggi ne parliamo con la professoressa Maria Concetta Carruba docente di pedagogia speciale presso Uni Pegaso.

Professoressa, nel sottotitolo del suo ultimo libro “Traghettare la scuola nell’era della intelligenza artificiale. Educare, progettare e includere” lei usa la parola inclusione che, per la verità, è un termine ormai un po’ inflazionato. Perché lei ci tiene ad usare questa parola?

Il sottotitolo è voluto, studiato e pensato perché ho sempre cercato di interrogarmi su come aiutare gli studenti con fragilità o con bisogni educativi speciali a performare al meglio. Su un punto però lei ha ragione: oggi la parola inclusione è veramente abusata in modo quasi esasperato ed esagerato; ma è anche vero che non per questo si può parlare di una reale inclusione che si traduce in azioni concrete. Purtroppo siamo ancora molto lontani da una scuola veramente inclusiva e quindi per questo motivo nel mio libro che parla di innovazione digitale ho voluto dedicare uno spazio adeguato all’inclusione e all’attenzione che l’insegnante deve avere per far sì che tutti gli studenti possano avere le stesse opportunità.

Lei entra anche in una questione pedagogica di non poco conto, perché dice che, proprio a proposito di inclusione, dobbiamo stare attenti a distinguere fra individualizzazione e personalizzazione. Vuole spiegarci meglio il suo punto di vista?

In classe, ogni studente risponde in maniera totalmente differente agli stimoli che riceve dall’insegnante e dal contesto in cui si trova, a prescindere dall’esistenza o meno di una diagnosi di una certificazione o di una fragilità.
Questo dovrebbe sempre spingerci a individuare quale sia il modo più efficace per raggiungere effettivamente il profilo di funzionamento di ciascuno studente; si tratta di una procedura molto diversa dall’individualizzazione che al contrario ci farebbe lavorare pensando allo studente come ad una piccola isola. Questo, però, non può bastare perché non ci permette di creare veramente un contesto inclusivo; secondo me lavorare correttamente in modo inclusivo all’interno della classe significa permettere a tutti di raggiungere lo stesso obiettivo ma con le modalità più opportune per poterlo fare. La personalizzazione che gioca un ruolo fondamentale nella crescita individuale dello studente.

Lei fa anche una distinzione molto interessante: educare con l’intelligenza artificiale e educare alla intelligenza artificiale. Cosa intende dire?

Ovviamente questi due aspetti sono legati tra di loro e sono entrambi importanti nella scuola di oggi.
Non possiamo immaginare di usare l’intelligenza artificiale solo come strumento all’interno del contesto classe o come un’ulteriore capacità da dover acquisire.
Innanzitutto dovremmo fare in modo che i nostri studenti siano consapevoli delle opportunità che può offrire lo strumento ma anche delle criticità che lo strumento stesso inevitabilmente ha.
Non dobbiamo mai dimenticare che stiamo parlando di una macchina, che è fallibile come qualsiasi altra macchina; il nostro vero scopo deve essere quello di far sì che gli studenti siano in grado di guidare l’innovazione e non di subirla.

Ma oggi le competenze digitali sono davvero così importanti?

Direi di sì, perché viviamo immersi in un contesto dove la digitalizzazione è sempre più diffusa; ormai qualsiasi nostra azione è legata in qualche modo a una struttura digitale e di questo dobbiamo prendere coscienza; soprattutto dobbiamo essere in grado di guidare questa consapevolezza in modo funzionale.
Qualsiasi mestiere oggi richiede almeno una azione che abbia a che fare con il digitale e quindi la competenza digitale rientra fra quelle competenze necessarie che occorre mettere nella cassetta degli attrezzi.
Ovviamente stiamo parlando di competenza reale e non di semplice conoscenza del digitale che è un’altra cosa.
Qui inevitabilmente entra in gioco l’insegnante il cui ruolo non è quello di trasmettere contenuti o informazione ma di fare in modo che negli studenti nasca il desiderio di apprendere qualcosa. Si tratta cioè di suscitare in loro quella passione e quella curiosità poi permettono una crescita reale.

A proposito di competenze digitali forse anche i genitori dovrebbero averne qualcuna; o no?

Educare all’uso del digitale è complicato soprattutto perché dovremmo prima di tutto darci un’autoregolazione, cosa che non è così scontata anche perché ormai tutti abbiamo a disposizione strumenti molto attraenti, che ci bombardano di informazioni e contenuti interessanti che in qualche modo ci influenzano nelle nostre scelte quotidiane.
E quindi, per educare un bambino all’uso consapevole di uno strumento, dovremmo forse fare un passo indietro e cercare di capire se quello strumento lo stiamo usando correttamente.
A volte, nel corso di incontri con i genitori, mi viene chiesto: “Per quanto tempo mio figlio può trascorrere usando questo o quello strumento?”
La domanda mi fa sorridere perché in verità non c’è un tempo predefinito; il punto è che il tempo è legato strettamente alla modalità d’uso.
Non posso educare correttamente all’uso del cellulare se io stesso genitore sta a tavola con lo smartphone e se parlando con mio figlio maneggio il mio telefonino.

A proposito di strumenti di intelligenza artificiale lei parla nel suo libro anche di un uso finalizzato al tutoraggio e alla valutazione degli studenti. Ce ne vuole parlare?

Se usata correttamente, l’intelligenza artificiale può diventare un buon tutor a supporto dello studente per aiutarlo a studiare meglio e in modo più efficace, più approfondito. E per il docente può essere un aiuto per progettare attività didattiche più entusiasmanti per i ragazzi.
Nella nostra università abbiamo un gruppo di ricerca con il quale stiamo lavorando tantissimo sull’uso dell’intelligenza artificiale nel campo dell’apprendimento; i nostri studenti hanno la possibilità di seguire dei corsi avendo a disposizione un sistema di intelligenza artificiale che fa da tutor 24 ore su 24. Il sistema si “nutre” del materiale del corso del docente e lo studente può utilizzarlo per chiedere un approfondimento o per avere spiegazioni di un contenuto con modalità diverse.

Nel suo libro, ad un certo punto lei fa una sorta di classificazione delle risposte che le persone danno alla intelligenza artificiale.
Lei dice più o meno: “Ci sono quelli che sono aperti all’esperienza e che quindi più facilmente di altri si avventurano nell’uso di questi strumenti; poi ci sono gli estroversi e anche questi sono tendenzialmente inclini ad usare l’IA; ma ci anche le persone che soffrono un po’ di nevroticismo: hanno molta ansia e quindi stanno un po’ lontani da questi strumenti”. Allora: io che sono aperto ed estroverso ma anche un po’ nevrotico, a che categoria appartengo?

Un po’ di ansia è normale che ci sia perché questo ci permette anche di essere più responsabili nelle scelte che noi facciamo sia rispetto all’uso dello strumento che all’orientamento che vogliamo dare allo strumento stesso.
In ogni situazione di apprendimento, l’ansia, se non è patologica, può risultare comoda e funzionale proprio perché ci richiama ad un uso critico dello strumento.
La mancanza di atteggiamento critico e di “timore” potrebbe indurci a lasciarci guidare dallo strumento in modo passivo, senza nessuna azione concreta da parte nostra.

Concludiamo: ai giovani, quale suggerimento, quale consiglio lei darebbe su come approcciarsi agli strumenti dell’intelligenza artificiale?

Non c’è dubbio che per i ragazzi l’intelligenza artificiale è una grande tentazione perché avere una risorsa che fa tutto al nostro posto è una cosa molto comoda; l’essere umano tende ad andare al risparmio e quindi quando è possibile si tende a risparmiare una fatica.
Ma, senza che io me ne accorga, questa modalità limita le mie potenzialità e la mia crescita in termini di acquisizione di competenze. E allora io suggerisco ai giovani di avere la mente aperta e curiosa e quindi di provare a studiare queste risorse per sfruttarle correttamente per imparare di più e meglio. Senza però fare l’errore di cercare un sostituto; non dimentichiamo che la tecnologia è solo uno strumento e per essere funzionale deve essere al servizio dell’uomo ma senza sostituirlo. Quando notiamo che una risorsa ci permette di essere assenti anche solo per una breve parte della nostra vita, è bene allora ricalibrare la nostra bussola perché probabilmente stiamo perdendo la possibilità di essere noi a guidare il nostro cammino e il nostro divenire.