Home I lettori ci scrivono La scuola deve formare al mondo del lavoro?

La scuola deve formare al mondo del lavoro?

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Gentile Ministro Valditara,

mi chiamo Fabio Gangemi, sono docente ITP e da quasi dieci anni insegno presso Istituti Tecnici e Professionali del Nord Italia. Le scrivo perché sento, prima ancora che il dovere, il bisogno di condividere alcune riflessioni maturate sul campo, a contatto quotidiano con studenti, colleghi, laboratori e aule spesso dimenticate.

Un articolo pubblicato su La Tecnica della Scuola propone un interessante confronto tra le sue parole e quelle di Adriano Olivetti, che ottant’anni fa auspicava una scuola autonoma e libera dalle logiche produttive. Un confronto che invita a riflettere.

Le sue parole trovano consenso sulla carta, ma nei fatti cozzano con la quotidianità che viviamo nelle scuole. L’idea di una scuola orientata al lavoro è certamente importante, ma profondamente in contrasto con la condizione reale in cui versano oggi molti istituti pubblici italiani. Non si può parlare di “scuola che forma al lavoro” quando i laboratori sono inagibili, le attrezzature inesistenti o obsolete, i materiali di consumo spesso assenti. Le richieste per l’acquisto di strumenti realmente utili vengono sistematicamente respinte con la solita frase: “Non ci sono soldi”.

Nel frattempo, si investono migliaia di euro in visori VR e sofisticati simulatori virtuali, che restano spesso chiusi negli armadi, inutilizzati, perché non utili alla didattica, per trasmettere competenze spendibili dagli allievi un domani nel mondo del lavoro. Mentre il mondo produttivo richiede giovani capaci di usare strumenti reali, concreti, si promuove un’istruzione immersa nella realtà virtuale, paradossalmente nello stesso momento in cui si chiede agli studenti di disconnettersi, distogliere lo sguardo dagli schermi dei loro smartphone.

Ministro, lei ci chiede di fare di più. Ma con cosa? In alcune scuole mancano perfino i cavi elettrici per semplici esercitazioni tecnico-pratiche. In molti istituti professionali, questa carenza non è una novità, ma una condizione strutturale cronica che si protrae ormai da anni. E poi, come se non bastasse, si propone la riforma del ‘4+2’, accorciando il percorso scolastico proprio quando servirebbe più tempo e strumenti per formare davvero. Come si può pensare di preparare meglio gli studenti in meno tempo e con meno strumenti, in un contesto che richiede invece maggiori competenze e capacità pratiche?

Le parlo da insegnante che ogni giorno prova a dare il massimo. Non è un caso isolato: sono tantissimi i colleghi che si trovano nella mia stessa situazione. La loro passione spesso sopperisce a ciò che lo Stato dovrebbe garantire. In questi anni ho speso soldi di tasca mia per acquistare strumenti, portato materiali da casa, lasciato vari dispositivi agli studenti. Qualcuno potrebbe dirmi che sbaglio. Ma lo faccio per dignità. Perché non riesco a prendere in giro i ragazzi. Non possiamo parlare loro di futuro e innovazione solo a parole, se poi non diamo loro gli strumenti per crederci davvero.

Mi permetta una domanda personale, che so essere condivisa da moltissimi colleghi:
Lei ha davvero idea di cosa significhi lavorare in queste condizioni?

Siamo docenti precari, costretti a vivere nell’incertezza, in un limbo che logora e consuma. Ogni anno non sappiamo dove saremo destinati, senza continuità didattica, senza carta del docente, senza alcun riconoscimento per l’esperienza maturata. E tutto questo accade mentre la politica sembra essere sempre più distante da ciò che davvero succede nelle classi. Il carico di lavoro, la pressione, lo stress che molti docenti, soprattutto precari, affrontano quotidianamente, non trovano alcuna risposta concreta.

Capita spesso di impegnarsi per costruire un laboratorio funzionante, di formarsi sull’utilizzo di nuove attrezzature, di portare avanti progetti concreti per i ragazzi… solo per poi essere spostati l’anno successivo. Quello che si è lasciato rischia di andare perso: materiali danneggiati, attrezzature abbandonate, nessuna continuità. Il lavoro fatto svanisce. E la sensazione che rimane è quella di impotenza, di frustrazione, di non poter completare ciò che si era avviato con passione e impegno. Alla fine, chi paga il prezzo più alto sono gli studenti, che si ritrovano privati della formazione che meritano.

Nel mio caso, nonostante abbia vinto un ricorso ormai già da qualche anno, non ho ancora ricevuto nemmeno un euro di quel bonus. E come tanti altri, ho sempre sostenuto da solo le spese per la mia formazione: libri, corsi, aggiornamenti professionali. E sa cosa farei se finalmente lo ricevessi? Comprerei ancora strumenti da lasciare ai miei studenti. Forse come ultimo gesto, prima di essere tagliato fuori da un sistema che non valorizza chi lavora da anni con passione, ma premia chi riesce, spesso per ragioni di tempo o risorse economiche, a superare percorsi abilitanti, anche a scapito di chi è in classe ormai da anni.

Ho partecipato ai concorsi, sono arrivato vicino al traguardo. Ma di questo, delle prove e delle modalità con cui vengono gestite, le scriverò in una prossima lettera.

Ministro, so bene che la macchina scolastica è complessa, che ogni istituto ha le sue dinamiche. Le domando: ha mai provato davvero ad ascoltare i docenti e a chiedere loro cosa serve alla scuola? Ha mai provato ad ascoltare chi ogni giorno vive questa realtà? Io credo che se lo facesse, la scuola comincerebbe davvero a cambiare, ed in meglio. E potremmo forse parlare sul serio di “scuola del merito”. Ma finché il merito resta una parola astratta, finché non si premia l’esperienza, la coerenza e l’impegno, finché non si restituisce dignità ai docenti, continueremo a perdere pezzi, energie e soprattutto vocazioni.

Non so se il prossimo anno continuerò a insegnare. Forse la mia esperienza si chiuderà qui. Ma andrò via a testa alta, consapevole di aver dato tutto ciò che potevo. Con rammarico profondo: vedere la scuola diventare sterile, anestetizzata, incapace di far sognare.

Ministro, siamo lontani anni luce da una scuola capace di formare realmente al lavoro. E non certo per colpa dei docenti. Senza strumentazioni adeguate e con un corpo insegnante largamente precario, parlare di “formazione al lavoro” rischia di diventare solo uno slogan.

Sarei felice se questa mia lettera potesse aprire un dialogo, o almeno una riflessione sincera e condivisa su ciò che la scuola oggi è e potrebbe essere.

Noi docenti vorremmo solo essere messi nelle condizioni di lavorare bene. Servirebbero ascolto, investimenti mirati, stabilità. Non miracoli, ma strumenti e fiducia.

Fabio Gangemi, docente ITP