Home Personale Lettera aperta di un insegnante: “Né capre, né martiri: trattateci da professionisti”

Lettera aperta di un insegnante: “Né capre, né martiri: trattateci da professionisti”

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Caro lettore, cara lettrice, oggi vorrei parlare di scuola e lo farò senza aver paura di dire le cose come stanno. Come saprai, all’ultimo concorso è stato bocciato il 55% dei partecipanti. Saranno a rischio 23.000 cattedre e il sereno avvio dell’anno scolastico (come sempre a settembre, in verità). Puntuali sono arrivate le polemiche, soprattutto sui social network. Un dibattito rozzo e ignorante, che strumentalizza la cosa per sparare a zero su un’intera categoria professionale. E tutto questo, te lo dico da subito, mi fa arrabbiare.

“Basta con insegnanti ignoranti e demotivati”, il tenore dei commenti più gentili. Un grossolano errore, questo, che confonde le persone respinte con chi questo mestiere lo fa già e che produce la pericolosa generalizzazione per cui tutti gli insegnanti sono incapaci di svolgere il loro mestiere. Un processo di interpretazione del fenomeno che ha il nome di “analfabetismo funzionale” – ovvero, non capire un cazzo di ciò che leggi – per cui chi ha fatto tali ragionamenti, ahimè, ha un problema. Grosso.

Ovviamente non è tutta colpa loro. Per anni la politica ha descritto noi prof come classe privilegiata, svogliata e inetta. Ricordi la ministra Gelmini? Si stupiva del fatto che i soldi destinati alla scuola andassero al 90% per gli stipendi tagliando quindi le cattedre, invece che aumentare le spese sulle altre voci, come la carta igienica che manca in bagno. Come a dire: i soldi dati ai docenti sono uno sperpero di risorse. Nel governo attuale si sono fatte riforme per cui la scuola diventa “buona”, come se quella di prima non lo fosse. E sempre in area filogovernativa se si vuole insultare qualcuno lo si etichetta di tanto in tanto come “professorone” o come “capra deportata”. Di certo non aiuta a vedere bene la categoria.

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Ma torniamo al concorso: si ha la spiacevole sensazione che chi sentenzia su di esso non abbia la minima idea di cosa sia un’unità didattica, una programmazione annuale, un Pof. Chi scrive le domande ai concorsi, nemmeno. Lo subodori quando ti chiedono di produrre un modulo di storia in cui devi parlare, in pratica, della storia degli afroamericani dallo schiavismo ad Obama. Ovvero, il programma di un esame universitario. E ti viene anche il dubbio che forse qualcuno vogliono farlo fuori da subito. Per capirsi: è come se a Masterchef ti chiedessero di cucinare una coscia di elefante al microonde in dieci minuti. E l’elefante, magari, è anche vivo.

Caro lettore e cara lettrice, il problema è che chi parla di scuola, da troppo tempo a questa parte, in larga misura non entra in un aula dal giorno del diploma. Fa parte di un’opinione pubblica che si fa bastare un messaggio su whatsapp o il tweet del leader di riferimento per credere di avere un’opinione. E la realtà delle cose è ben più complessa e non sta in 140 caratteri. Di cosa sto parlando?

C’è chi dice: «Fare l’insegnante deve essere una vocazione e non un ripiego. Farei notare tuttavia che non stiamo parlando di propensione al martirio, ma di una professione. Costruita con laurea – parlo del mio sistema di reclutamento, al momento maggioritario tra le nuove leve – concorso pubblico per la scuola di specializzazione, due anni di lezioni e di esami, tirocinio, tesi finale ed esame di stato. E mettici anche i titoli aggiuntivi come master, dottorato, corsi di perfezionamento, ecc.

C’è chi dice: «Fare l’insegnante deve essere una vocazione e non un ripiego» (argomento molto à la page). Farei notare tuttavia che non stiamo parlando di propensione al martirio, ma di una professione. Costruita con laurea – parlo del mio sistema di reclutamento, al momento maggioritario tra le nuove leve – concorso pubblico per la scuola di specializzazione, due anni di lezioni e di esami, tirocinio, tesi finale ed esame di stato. E mettici anche i titoli aggiuntivi come master, dottorato, corsi di perfezionamento, ecc. Anni di sacrifici e di studi per una brillante carriera a 1300 euro al mese, rispetto un contesto internazionale in cui gli stipendi sono molto più alti. Se vogliamo insegnanti più motivati, potremmo cominciare a parlare di questo. No?

Ma i soldi, è ovvio, non sono tutto. Ci vuole l’amore per il mestiere che si fa. Quando insegnavo al liceo avevo una cattedra di dieci ore, a Roma. Guadagnavo 800 euro al mese. L’affitto era di 400, spese escluse. Amavo quello che facevo e non pensavo al denaro, in classe, perché il rapporto con i miei allievi e le mie allieve era speciale, fatto di cose come i gruppi di lettura spontanei sui personaggi dei Promessi sposi o il percorso sulla tirannide, partendo da Alfieri, toccando don Rodrigo, leggendo Nummeri di Trilussa e concludendo con la visione di V per Vendetta. Fatta a giugno: già licenziato, ho preso una giornata (libera) in accordo con la collega che mi aveva sostituito, per il bene della continuità didattica. A costo zero, per la scuola.

La professionalità dell’insegnante è qualcosa che ti costruisci sul campo, e non solo su libri e registri. Come quando scopri che hanno rotto il naso al tuo allievo nigeriano, per strada a Torre Angela. Perché è “un brutto negro” e là funziona così. E allora gli compri una coca cola ghiacciata, gliela metti sulla faccia e gliela regali pure. O come quando trattieni le lacrime, di fronte alla bambina a cui hai insegnato a parlare italiano, in una classe di periferia disastrata, mentre ti dice “mai mi dimenticherò di te”. O come quando, quel giorno, la tua allieva africana ti fa vedere l’ecografia del bambino morto, perché non sa a chi dirlo in quel momento se non a te. E lì capisci che non c’è tempo per i verbi irregolari. Lì non c’è nessun concorso che può testare quanto sei capace di tenere in pugno la situazione. Nessun codice meccanografico che tenga.

Caro lettore, cara lettrice, io porto questo come testimonianza del mio fare l’insegnante. In queste storie, e molte altre che ho visto, si maturano competenze e capacità. E nessuna offesa, quindi, se non me ne faccio nulla dei commenti letti su come dovrei essere, tra un retweet al “ciaone” di turno o un like sull’ennesimo auspicio di ruspa. Certa volgarità o certa insipienza offendono non tanto me, quanto tutta l’umanità che mi ha accarezzato in questi anni. Nessuna offesa, davvero, se annovero chi produce certi giudizi nel girone degli ignoranti o nella schiera di certi servi senza qualità, che agitano le manine per sperare di compiacere il leader da cui mutuano pensieri da copia e incolla, lasciando a casa il senso critico. Perché questa gente non può insegnarmi nulla.

(La lettera è stata presa da Linkiesta.it)