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“Nella tragedia di Lampedusa cerco i volti dei miei studenti”: i timori di un insegnante italiano in Eritrea

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Poche persone come il professor Emilio Di Biase, racconta un articolo struggente della Stampa, conoscono e capiscono la tragedia dei migranti per avere vissuto con quelle popolazioni una diecina d’anni come insegnante. E per questo quando un barcone affonda, portando con sé la tragedia cupa della morte, guarda mille volte le foto trovate nelle tasche dei morti e mille volte cerca nei volti dei tanti giovani sopravvissuti i tratti dei suoi alunni. Durante l’ultima tragedia non ha perso un solo telegiornale e su Internet ha continuato a cercare i volti di ragazzi sopravvissuti. Li ha guardati bene perché qualcuno di quei giovani, giunti a riva o rimasti in fondo al mare, potrebbe essere stato uno dei suoi alunni.
Il professor Di Biase, oggi preside a Verbania, dal 1992 e sino al 2009 è stato in Etiopia e in Eritrea come cooperante in un Istituto professionale e alla notizia della tragedia di Lampedusa ha guardato “quelle foto, ho cercato di vedere se tra quei ragazzi sopravvissuti, o nelle fotografie trovate nelle tasche di morti, poteva esserci qualcuno dei miei allievi. Io li conosco bene perché in Eritrea ci sono stato per sette anni. Ho imparato ad amare quel popolo, quella gente, che ci ama. Ho conosciuto la loro disperazione che li spinge a scappare a fuggire. Noi non riusciamo a capire, ma dobbiamo capire se vogliamo avere anche noi un futuro”.
“Non ho conosciuto una città più italiana di Asmara dove tutto, gli edifici, straordinarie opere di architettura d’avanguardia e del razionalismo, le strade, anche le insegne, parlano italiano; ci sono eritrei che si mettono sull’attenti quando sentono suonare l’Inno di Mameli – prosegue – noi non riusciamo nemmeno a capire cosa avviene in quel Paese che continua a sperare in noi. Il vostro collega Domenico Quirico ha scritto una volta che l’Eritrea è una prigione a cielo aperto. Aggiungo: l’Eritrea è una immensa prigione con dentro tante prigioni. Nel quartiere dove abitavo io, ad Asmara, c’erano tre luoghi di detenzione. La ferma militare inizia a 15 anni e si conclude a 50 anni. Se uno ci arriva a quell’età. Un Paese dove una bomba a mano, un kalashnikov costa meno di un pranzo”.
“Ci chiediamo perché arrivano i barconi?”
“Ci siamo mai chiesti perché su quei barconi, e su quel barcone naufragato a Lampedusa, c’erano così tanti giovani, donne e bambini, perfino un neonato – continua il professore – perché si cerca in tutti i modi di fuggire dall’inferno e qualsiasi posto è migliore. Abbiamo idea di cosa vuol dire fuggire dall’Eritrea per arrivare in Italia, in Europa? Lo dico io. Si attraversano due deserti: a piedi, per migliaia di chilometri quello di sabbia; poi un altro deserto che è il mare. Il mare fa paura e pochissimi sanno nuotare. Sanno che possono morire. Ma sanno anche che se restano in Eritrea muoiono mille volte. Ci sono donne che si sono bruciate vive. Di loro non ha mai parlato nessuno. E’ meglio scappare da là. Restare vuol dire morire”.
Guarda le foto degli studenti della sua scuola professionale ad Asmara, racconta La Stampa, qualcuno di quei ragazzi forse è in una di quelle bare allineate nel capannone di Lampedusa. O forse è rimasto per sempre nel deserto. Forse avrebbe preferito così anche Rahel, restare nel deserto o finire in fondo al mare piuttosto che in un luogo di detenzione.
“Anche lei ha cercato di raggiungere l’Italia – racconta Emilio Di Biase – Rahel è la figlia di un ex ministro caduto in disgrazia. Una ragazza straordinaria e intelligentissima. Con l’aiuto della nonna ha cercato di fuggire, di venire, in Italia. Ha trovato le persone sbagliate, l’hanno tradita ed adesso so che si trova in una “prigione punitiva” nella Dancalia. L’hanno mandata nell’inferno ecco perché è meglio cercare di scappare anche se il rischio è altissimo. Restare vuol dire avere una sola prospettiva: morire e veder morire i propri figli. Ecco perché sui barconi ci sono tante donne e bambini”.