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Siamo nati da quel piccolo mondo

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Ho accompagnato, in questi giorni, dei gruppi, a visitare le abbazie benedettine della nostra terra. Una miriade di centri che ricopriva a rete, fra Ottocento e Novecento, l’intero continente, ed in cui è vissuto circa il 30 per cento della popolazione d’allora. Qui é nata la moderna Europa. Sotto quelle volte il patrizio romano ha abbracciato l’uomo gotico, suo nemico e dominatore.

E questi ha riconosciuto, a sua volta, la grandezza della cultura mediterranea. All’ombra del monastero benedettino, la cultura classica è entrata in osmosi con quella germanica, grazie all’elaborazione cristiana. Il senso del bello e della ricerca dei Greci; la capacità di organizzare le comunità attraverso norme trascendenti, propria dei Romani, l’attenzione di questi ultimi al corpo, all’architettura ed alla tecnologia, unite alla trascendenza cristiana, generatrice di dignità ed universalità umana, hanno prodotto il tipo antropico europeo: razionale, capace di tenere in equilibrio le ragioni del corpo e dello spirito, laborioso.

Sono stati proprio i figli di Benedetto a rieducare l’etnia romana al gusto del lavoro manuale che, nel declino della stagione imperiale, era riservato agli schiavi. Quell’”Ora, labora et lege”, presente nella Regola, aveva ripristinato il triangolo aristotelico dell’uomo composto di “pneuma” (spirito), “psiche” (intelletto) e “soma” (cura del corpo ed attività fisica). Il monastero benedettino riproduceva la “città platonica”, in cui ciascuno viene valorizzato per le proprie abilità. Dove al lavoro intellettuale della trascrizione dei codici antichi (gli “scriptoria”), si affiancava l’attività chimica dei “laboratoria”, che precorre quella moderna, e l’attività manuale di artigiani, allevatori e contadini. La grandezza di quei monaci contadini che, dopo l’ondata barbarica, ci hanno restituito la dieta mediterranea degli antichi, i montepulciani ed i trebbiani, l’olio delle nostre colline.

Due riflessioni: Prima. Nella casa di Benedetto il lavoro era fatto in silenzio, costituiva una forma di preghiera, definiva l’identità della persona, dava senso alla giornata e all’esistenza.

Seconda. Ogni lavoro aveva il suo valore, secondo la massima “Unicuique suum” (a ciascuno il suo). Non c’era “stratificazione” (il più e il meno) bensì “strutturazione” (diversità di competenze). Ma neanche astratta “atomizzazione”, come nella mentalità moderna postgiacobina. Era, la città platonica, insomma. Ed è bello pensare che tutti siamo nati da quel piccolo mondo, dove il misticismo dell’abbazia riproduceva, in piccolo, la sacralità della società e del cosmo. “Sovrana bellezza, infinita calma, primitiva santità”: sono le parole estasiate di D’Annunzio, di fronte all’interno mozzafiato di s. Clemente a Casauria, ai piedi della Maiella.

E allora, per favore, quando riformeremo la scuola superiore, non fermiamoci alle famose tre “i” (inglese, informatica, impresa). Aggiungiamone una quarta: “Identità”.