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Brexit: colpa della scuola

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Interessante articolo dell’ Huffington Post secondo il quale il referendum che si è svolto in Gran Bretagna, che ha chiesto ai cittadini se rimanere o  uscire dall’Ue, mettendo in luce la lacerazione del corpo elettorale tra città e campagne, tra giovani e anziani, tra ricchi e poveri, dimostra anche una disparità di livelli di informazione e quindi di cultura e di capacità critica.

L’unico rimedio per evitare tali spaccature è l’istruzione, secondo il giornale, che se favorisce l’ascensore sociale, quel meccanismo virtuoso per cui gli alunni più poveri possono, se studiano, avere accesso a opportunità migliori dei loro genitori.

 

 

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Il cittadino dunque più che copi giornali e la Tv si forma a scuola. E dunque, se si vuole evitare che il voto democratico si trasformi in una serie di shock ripetuti, in cui metà del corpo sociale rimane attonita a scoprire ciò che pensa l’altra parte, dalla scuola occorre ripartire.

Molto utile, in questa ottica, un libretto di alcuni mesi fa: “Quale scuola? Le proposte dei Lincei per l’italiano, la matematica e le scienze”, a cura di Francesco Clementi e Luca Serianni.

Il volume prende le mosse dal progetto “Una nuova didattica per la scuola: una rete nazionale”, promosso dall’Accademia nazionale dei Lincei. In sostanza, un vasto piano di formazione degli insegnanti dalla scuola elementare a quella superiore in tre ambiti distinti: lingua italiana, logica e matematica, scienze naturali. Grazie alla creazione di poli regionali, con il contributo delle varie università e del sistema scolastico locale, gli insegnanti partecipano a percorsi di formazione laboratoriali, confrontandosi con altre esperienze e definendo nuove e più efficaci modalità della didattica.

Questa iniziativa, certamente all’avanguardia, ci consente di individuare alcuni difetti storici del nostro paese quando si parla di scuola: un certo sussiego nei confronti di quei “men of little showing” (cioè i docenti) che con il loro impegno oscuro consentono al grande scienziato di divenire tale, come pure al “cervello in fuga” di avere qualcosa da esportare; la separazione tradizionale tra materie umanistiche e quelle scientifiche, dove le seconde sono ancelle delle prime e poco considerate; la tentazione “disciplinare” della scuola a scapito dello sviluppo di competenze: non ha senso pensare all’apprendimento dei ragazzi se si prescinde dal contesto famigliare e sociale, e non serve ammannire Alessandro Manzoni (per carità…) se il discente non è in grado di comprendere un articolo di giornale; la difficoltà a immaginare percorsi “verticali”, che cioè mettano al centro il giovane e considerino la sua crescita come un’unica evoluzione, anziché tracciare uno sviluppo fatto di ostacoli (esami) e ripetizioni (a livello di contenuto).

Se volessimo usare una metafora urbana, scrive sempre il giornale,  potremmo affermare che la scuola italiana assomiglia a una città dal centro ben tenuto e dalla periferia degradata. Nel centro si trovano la scuola materna e quella elementare: frequenza praticamente universale da parte delle classi anagrafiche interessate, dispersione molto bassa, rendimento degli studenti più alto rispetto agli altri paesi Ocse, modelli didattici aggiornati alle più recenti impostazioni culturali. Allontanandosi verso i primi sobborghi si incontrano, ai due estremi anagrafici, asili-nido e scuole medie, che oggi si chiamano “secondarie di primo grado”: per i nidi, il problema fondamentale è la disponibilità dei posti, che colloca l’Italia al vertice basso della classifica rispetto ai paesi sviluppati, pregiudicando le donne nel loro accesso al lavoro; nel caso della vecchia media, invece, le competenze dei ragazzi rimangono accettabili nei test internazionali, ma manca una definizione chiara sul ruolo di questo passaggio in rapporto al precedente e in previsione di quello successivo.

Infine, nella periferia più estrema – quella che di sera bisogna frequentare con circospezione – troviamo la scuola superiore: fatte salve le ovvie differenze tra singoli istituti, aree del paese, tipologie di scuola, generi (le ragazze sono più brave), ecco il punto debole del nostro sistema: dispersione elevatissima e scarso sviluppo di competenze da parte dei maturati. Addirittura, secondo alcune indagini, un giovane che completa il proprio percorso di studi secondari mostra un plafond di competenze più o meno analogo a quello che possedeva al termine delle medie!

Intendiamoci, non è giusto e non è utile essere disfattisti. La scuola italiana ha molte eccellenze e all’estero non ridono come talvolta ci piace credere; in più, occorre ricordare che è grazie alla scuola, soprattutto elementare, che il nostro capitale umano è cresciuto nel dopoguerra più che in qualunque altro paese al mondo a parte la Corea del Sud, passando da una condizione di sottosviluppo a una avanzata. E tuttavia, se vogliamo crescere in futuro cittadini consapevoli in un mondo sempre più complesso, della scuola occorre continuare a occuparsi, tornare a discutere.