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Da Berlusconi a Renzi, nessuno ha puntato sulla scuola. I docenti fanno bene a protestare per salari più alti

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Gli stipendi dei docenti sono troppo bassi. Una realtà, purtroppo, ormai consolidata.

risultati della ricerca “Education at glance” dell’Ocse, ripresi da vari giornali, mostrano che gli stipendi della scuola italiana sono non solo tra i più bassi d’Europa – 1.300 euro di media netti al mese appena assunti, 1.800 a fine carriera – ma anche quelli che hanno subìto la contrazione più forte negli ultimi anni, il 7 per cento circa.

Lo stipendio di un docente italiano a inizio carriera è in media di 29.445 euro annui, sei anni fa era di 31.914 euro. Nel frattempo l’inflazione poco ma continua a salire: l’1,2 per cento rispetto al 2016.

 

Sul sito internet della rivista Internazionale, Christian Raimo, giornalista e scrittore, punta il mirino sugli effetti distorsivi della Buona Scuola e compie una riflessione amara sul mondo scolastico: “Da Berlusconi a Renzi, non c’è stato premier che non abbia detto di voler puntare sulla scuola: eppure oggi la spesa per l’istruzione in Italia è del 3,7 per cento contro una media europea del 4,8. Fanno anche piazza pulita del dibattito sulla valutazione degli insegnanti che ha accompagnato tutto il lungo percorso parlamentare della legge 107, ossia la Buona scuola.

Una legge che, partorendo l’obbrobrio del bonus per merito stabilito dai comitati di valutazione, ha mancato l’obiettivo fondamentale: investire sul serio sulla qualità dell’insegnamento. Qualunque misura sarà inefficace se le politiche scolastiche non verranno completamente ripensate. Chi frequenta le aule scolastiche si rende conto di questo disastro anche senza leggere le cifre: molti docenti fanno fatica ad arrivare a fine mese, non riescono ad aggiornarsi e nella maggior parte dei casi cercano di garantirsi, in modo informale, un salario accessorio con le ripetizioni private.

Il rinnovo del contratto nazionale – bloccato da quasi dieci anni – dovrebbe arrivare nel 2018, e probabilmente prevederà un aumento medio di 85 euro mensili. Ma anche questa misura sarà inefficace se le politiche scolastiche non verranno completamente ripensate.

Le scuole che vivono in contesti economici più favorevoli provano a portare avanti progetti importanti grazie alla buona volontà degli insegnanti, quelli magari capaci di immaginare i progetti del cosiddetto Pon, il programma operativo nazionale; e dei genitori, che ci tengono a finanziare attività extracurriculari nella scuola dei propri figli. Nel resto dei casi non manca solo la carta igienica – come si dice ormai in modo quasi proverbiale – ma anche la funzione di emancipazione sociale che dovrebbe caratterizzare la scuola.

Il tema del salario degli insegnanti non è quindi solo una rivendicazione sindacale, ma di democrazia. Avrebbe senso allora legare il nuovo contratto nazionale a un’offerta qualificata di formazione e di ricerca per i docenti; avrebbe senso progettare la scuola non del 2017-2018, ma del 2030 o del 2050, pensare quale sarà il suo ruolo tra dieci o trent’anni, e investire pensando a quel modello.

Senza nulla togliere alle opinioni altalenanti della ministra Fedeli, la crisi della scuola non è più un tema da addetti ai lavori, ed è giusto scioperare e protestare. Ma se anche fosse sbagliato, è un buon esercizio di democrazia. Sbagliando s’impara.

 

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