
Sulle riforme del ministro Valditara si sta creando un movimento contrario che sempre di più coinvolge il mondo della pedagogia e della “scuola militante”.
Sotto accusa sono soprattutto l’idea di riscrivere le Indicazioni Nazionali del primo ciclo, azzerando quasi decenni di ricerca psico-pedagogica e il tentativo di ripristinare parole d’ordine che appaiono in contrasto con l’obiettivo di costruire corretti rapporti educativi all’interno della scuola.
Ne parliamo con Franco Lorenzoni, pedagogista, scrittore, per molti anni maestro di scuola primaria.
Sempre più frequentemente, soprattutto negli ultimi mesi, si sentono parole ed espressioni che nel mondo della scuola sembravano scomparse da tempo. Penso ad esempio a parole come punizione e coercizione; si sta quasi mettendo in discussione l’idea di educazione attiva che risale a un secolo fa. Ciò che stupisce è che sembra che il mondo della scuola stia metabolizzando tutto questo senza troppi problemi.
Cosa sta succedendo?
Probabilmente nella scuola sta capitando ciò che succede anche in altri segmenti della vita sociale. Forse si sta diffondendo una sorta di vera e propria cultura della sanzione per cui si pensa che basta punire per risolvere alcuni problemi.
Recentemente la professoressa Loredana Perla, incaricata di coordinare il lavoro di riscrittura delle Indicazioni nazionali si è espressa più o meno così: la parola coercizione non va interpreta male, la coercizione è necessaria; gli studenti devono sapere che studiare è un obbligo, con tutto ciò che ne consegue.
E lei invece come vede il problema?
“Coercizione”, dice il dizionario, significa obbligare altri a fare una cosa usando la forza o minacciando di usarla coazione, è sinonimo di costrizione limitazione. Ed è impressionante che una persona incaricata di scrivere Indicazioni nazionali, cioè un documento che dovrebbe orientare l’intera pedagogia della scuola di base usi espressioni così banali che evocano il desiderio di ritorno all’ordine quando sappiamo tutti per esperienza che costringere qualcuno a fare qualcosa non produce effetti.
La scuola oggi ha il problema di far innamorare gli studenti della conoscenza ragazze.
In proposito vorrei ricordare il pedagogista brasiliano Paulo Freire che parlava di asimmetria antiautoritaria: lui diceva che quando un insegnante incontra un gruppo di ragazzi e ragazze deve rimettere in discussione il suo sapere nel senso che lui sa di più e può quindi proporre degli itinerari di ricerca ma poi deve ristudiare con quel gruppo.
Provo a fare una obiezione. Ciò che lei dice è comprensibile, ma prima o poi bisognerà far comprendere ai bambini e ai ragazzi che lo studio è anche impegno e fatica e non è soltanto un puro divertimento…
Lo studio comporta certamente fatica e proprio per questo bisogna fare in modo che chi la affronta capisca che ne vale la pena.
Anche salire su una montagna è faticoso, ma è una straordinaria esperienza di cambiamento di punto di vista e di conquista di nuovi orizzonti.
Lei ha “inventato” e realizzato molti anni fa il laboratorio di Cenci cioè un luogo dove si fa ricerca e si cerca di evitare quanto più possibile la lezione del maestro; a Cenci si fa ricerca tutti insieme, ma in questi ultimi anni, si è persa un po’ l’idea della “scuola come centro di ricerca”?
Direi di no, io vedo minoranze attiva molto vivaci un po’ dappertutto e questo mi fa ben sperare. Sono convinto che fare ricerca è fondamentale, perché nessuno si farebbe fare un’operazione da un chirurgo che negli ultimi 20 anni non ha studiato e questo perché la chirurgia è cambiata completamente negli ultimi decenni; lo stesso accade con la pedagogia: come si può pensare che per insegnare oggi possano bastare gli studi pedagogici di 30 anni fa?
Veniamo ad una questione che in questi giorni è molto attuale, quella del rapporto fra educare e punire; forse bisogna far comprendere ai ragazzi che quando si contravviene ad una regola c’è una punizione; se passo col rosso vengo sanzionato con una multa e se in un mese passo con il rosso 10 volte, la sanzione è anche più pesante. Forse è bene che i giovani comprendano questo.
Parto da una considerazione che fa spesso Gherardo Colombo il quale ad un certo si è dimesso dalla magistratura dicendo di essersi accorto che la punizione non è strumento educativo. Cioè a scuola dobbiamo far comprendere l’importanza delle regole ma dobbiamo anche fare in modo che tutti capiscano le regola si costruiscono insieme, concordandole e condividendole.
Bisogna proprio rivedere tutta la questione della punizione e pensare che la costruzione delle regole è fondamentale perché senza regole non c’è convivenza e non c’è democrazia; ma io le regole le rispetto perché capisco quanto mi sono utili.
E di questo si parlerà molto nel corso del convegno promosso dalla rete Educazioni, in programma il prossimo 10 marzo. La relazione introduttiva sarà svolta proprio da Gherardo Colombo ma ci saranno anche molti interventi di educatori ed esperti che discuteranno sul tema dell’iniziativa che è “Punire e umiliare non è educare”. Cosa vi aspettate da questo convegno?
Mi piacerebbe che ci si convincesse che bisogna farla finita con la scuola tribunale per praticare la scuola laboratorio. Il tribunale è un luogo da cui tutti cercano di stare lontani. Il laboratorio è il luogo che tutti vorremmo frequentare per capire se stiamo facendo progressi. In una scuola laboratorio ci sta bene anche l’errore, se la riflessione sull’errore serve a correggersi. Vorrei insomma una scuola in cui l’errore non sia un comportamento da sanzionare ma un vero e proprio strumento di conoscenza.
Ecco, ci auguriamo che il convegno serva a diffondere sempre più questa idea di scuola.