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Educazione affettiva ed emotiva nell’era del digitale

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Nonostante gli studi e ricerche in ambito pedagogico abbiano messo in discussione da tempo questa lettura semplificata, è ancora diffusa e condivisa la tendenza a misurare l’apprendimento prevalentemente attraverso standard rigidi e valutazioni cognitive, spesso inadeguati a cogliere la complessità e l’unicità di ogni studente.
Nell’era digitale, dove l’informazione è onnipresente e in continua evoluzione, la vera competenza non risiede più nel sapere a memoria, ma nel saper fare con consapevolezza critica e sensibilità emotiva. La scuola rischia di trasformarsi in un “supermercato” di contenuti preconfezionati, dove il docente è un mero erogatore e lo studente un consumatore passivo.
Questa “didattica da consumo” ignora la natura più profonda dell’educazione: la formazione del pensiero critico e la costruzione dell’identità personale. Non basta trasmettere nozioni; occorre insegnare a selezionare, interpretare e dubitare dell’enorme flusso di dati, a discernere il significato dal rumore. L’incertezza e la velocità del cambiamento non sono ostacoli da evitare, ma elementi da integrare nel processo di apprendimento.
A questo proposito, non possiamo ignorare il ritorno in auge di una visione nostalgica che si manifesta in iniziative volte a reintrodurre forzatamente la mera ripetizione mnemonica di lunghi testi, in particolare le poesie, come panacea formativa.
Questa enfasi curricolare, talvolta percepita come un’ossessione da parte delle direttive, confonde il mezzo con il fine. L’atto del mandare a memoria, di per sé, può rafforzare la concentrazione e la disciplina cognitiva, ma se non è agganciato a un processo di comprensione profonda, di analisi critica e di interpretazione emotiva, si riduce a un esercizio sterile, a una prestazione meccanica.

In un’epoca dove ogni informazione è istantaneamente accessibile, la scuola che si focalizza sul “quanto si sa a memoria” fallisce nel preparare gli studenti al “come si usa ciò che si sa”. Il vero valore della poesia non risiede nella ripetizione acritica, ma nella sua capacità di aprire mondi interiori, di affinare la sensibilità linguistica e di educare all’ascolto delle sfumature. Il tempo speso in una verifica di riproduzione potrebbe essere impiegato per un dibattito sull’attualità del messaggio poetico o per una riscrittura creativa, sviluppando così la metacognizione. La vera rivoluzione pedagogica si gioca sul piano dell’intelligenza emotiva e delle competenze socio-relazionali.

La scuola deve diventare il luogo privilegiato dove si impara a gestire l’errore (non come fallimento, ma come tappa fondamentale della crescita), a sviluppare l’empatia (l’antidoto all’indifferenza, da coltivare attraverso attività cooperative) e a essere resilienti all’incertezza (abituando gli studenti a navigare in scenari complessi e a trovare soluzioni creative a problemi non strutturati). L’apprendimento non è un atto solitario, ma un processo eminentemente sociale. Le aule devono trasformarsi in laboratori di cittadinanza attiva, dove il confronto, la negoziazione e la risoluzione congiunta dei conflitti sono parte integrante del curricolo formativo.

La valutazione deve, di conseguenza, evolvere: le valutazioni devono essere autentiche e formative, capaci di misurare le abilità reali (come la capacità di argomentare, collaborare e autoregolare l’apprendimento) e non solo la riproduzione. Il nostro ruolo è quello di vigilare sulla qualità del processo, non solo del risultato, esaminando criticamente i curricoli, le metodologie e, soprattutto, gli strumenti di valutazione, affinché non si ritorni a un modello meramente trasmissivo. Investire nell’Intelligenza Emotiva è la tecnica della scuola più avanzata che possiamo adottare: significa formare cittadini capaci non solo di comprendere il mondo, ma anche di migliorarlo con passione e rigore etico. In questo senso, è illuminante la riflessione del grande pedagogista Giancarlo Cerini: “La scuola non può fermare il futuro, può solo aiutare a viverlo.” Questa frase è un monito potentissimo contro ogni forma di immobilismo o di nostalgia sterile. La scuola che “aiuta a vivere il futuro” è una scuola che non si attacca a pratiche desuete per timore del nuovo, ma che fornisce gli strumenti cognitivi ed emotivi necessari per abbracciare l’incertezza, per esercitare il giudizio e per costruire relazioni significative.

Non ha bisogno di feticci, ma di docenti formati, metodologie attive e una leadership scolastica orientata all’innovazione. Il nostro compito è preparare i ragazzi a un mondo che non possiamo ancora definire, ma che richiederà flessibilità e umanità.