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Intelligenza artificiale, bisogna formare i docenti, ma in che modo? Rispondono gli esperti

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Il tema dell’intelligenza artificiale si sta confermando sempre di più come una questione centrale per il mondo della scuola.
In queste ore è intervenuto il ministro Valditara per ribadire che gli insegnanti vanno formati sui problemi della I.A.
Abbiamo chiesto a due esperti della materia di spiegarci in cosa potrebbe consistere questa formazione.

Roberto Maragliano, già docente universitario di pedagogia e presidente della Commissione di saggi che alla fine degli anni ’90 su incarico del ministro Berlinguer aveva lavorato alla redazione di un ponderoso documento sui saperi essenziali, afferma: “Dobbiamo prendere sul serio la sfida, che ci viene da questa ’santa diavoleria’, a confrontare quel che pensiamo umano, in fatto di intelligenza, e quel che consideriamo artificiale. Questo significa però metterci realmente in gioco e imbastire un dialogo con ‘quella cosa lì’ che sta nel cellulare (e che cresce anche quando lo sequestriamo)”.

Marco Guastavigna, docente e autore di numerose pubblicazioni sui problemi delle tecnologie dell’informazione e delle loro applicazioni in campo educativo, aggiunge:  “Sono pienamente d’accordo sul fatto che i docenti, e più in generale il personale scolastico, debbano essere formati su questa tematica. Io penso infatti che affrontare in modo critico questo tema sia una priorità assoluta per chi voglia adottare un approccio davvero emancipante ai dispositivi digitali, dal punto di vista sia operativo sia culturale. A patto, però, che si abbandoni il dibattito così come si configura attualmente, disperso tra sensazionalismo mediatico ed escursioni empiriche, tra entusiasmo tecnofilo e rifiuto pregiudizievole, e imperniato sulla convinzione che ciò che conta sia capire – e giudicare – il funzionamento di superficie dei chatbot, dei traduttori automatici, dei ri-produttori di immagini, delle applicazioni per la realizzazione semi-istantanea di ‘mappe’ a partire da testi”.

Soffermiamoci un momento sulla chat-gbt il cui uso si sta diffondendo sempre di più

Spiega Maragliano: “Se io la uso come esecutore meccanico di funzioni che per tradizione sono portato ad intendere come intellettuali svaluto lei/lui e me stesso. Faccio invece un salto in avanti se gioco al dialogo, se dunque reagisco alle sue risposte con altre mie domande, sempre più mirate, come faccio usualmente  dialogando con un conoscente di cui ho rispetto e che ne sa più di me. Incorporandola e incorporandomi in essa capirò, via via, quali sono i suoi (e i miei) punti di forza e i suoi (e i miei) punti di debolezza”.

“Il fatto è – sottolinea Guastavigna – che i dispositivi di AI hanno il compito di compiere prestazioni finalizzate a obiettivi definiti, con risultati paragonabili a quelli umani. E questo avviene mediante la raccolta e l’analisi di dataset, l’individuazione di correlazioni, la costruzione e la riproduzione dei modelli individuati. È il caso, ad esempio, dei dispositivi come Google translate, che traducono dall’una all’altra lingua senza comprendere nulla di quanto vanno elaborando, ovvero sulla base di rapporti statistici tra le parole e di tabelle di corrispondenza e non in funzione della relazione semantica tra idee, nozioni, concetti e così via. E questo è il paradigma vincente: fare senza capire”.

“La sua forza – sostiene ancora Maragliano – è di essere stata addestrata ad attingere materia, dinamicamente, da uno spazio teoricamente illimitato di sapere collettivo. La sua debolezza è di essere un agente di normalizzazione. La mia debolezza sta nei limiti di quantità e di velocità del mio elaborare intelligenza. La mia forza nei suoi confronti sta nella possibilità di porre, nel colloquio, delle domande originali. Lei/lui non pensa, io (forse) sì. Ne viene una bella indicazione per il futuro della scuola (ammesso che possa averne uno, acciaccata com’è in quanto sommersa e ricattata da macchine, i libri ieri, le reti oggi/domani): educare il pupo (e il suo custode) a elaborare domande e smetterla di chiedere solo risposte”.

In effetti, la capacità di questi dispositivi di “imparare” è impressionante e forse è proprio su questo punto che si dovrebbe incentrare la formazione dei docenti

“E’ così – risponde Guastavigna – ed è necessario comprendere fino in fondo che l’allenamento dei dispositivi non avviene in campo neutro. Esso, infatti, altro non è che la captazione in tempo reale dell’intelligenza collettiva condivisa sulla rete internet: questo aspetto pone non tanto il problema di riconoscimento dell’autorialità e dei conseguenti diritti, quanto piuttosto quello dello scambio ineguale tra coloro che contribuiscono alla costruzione di palestre per l’allenamento di macchine per la privatizzazione della conoscenza a scopo di profitto – a cui partecipano a pieno titolo anche coloro che si prestano al beta-testing delle varie applicazioni, permettendo il loro raffinamento – e i loro proprietari”.

Secondo questo punto di vista la formazione non dovrebbe toccare solamente gli aspetti tecnici

Esattamente – conclude Guastavigna – credo che sia indispensabile una vera e propria formazione alla cittadinanza, che faccia crescere la consapevolezza del fatto che può accedere a dataset significativi solo chi possiede moltissimi dati, così come può computare e costruire modelli pregnanti solo chi dispone di potenza di calcolo adeguata, ovvero le grandi corporation del capitalismo cibernetico”.

Maragliano, fingendo di scherzare, fornisce una indicazione di lavoro da sperimentare nella formazione dei docenti e nella attività didattica quotidiana: “Io concluderei con una considerazione. bisogna confrontarsi con l’IA giocandoci. Sono sicuro che Gianni Rodari sarebbe ben felice di tutto questo”.