Home I lettori ci scrivono Ma gli insegnanti precari non sono parcheggiatori abusivi

Ma gli insegnanti precari non sono parcheggiatori abusivi

CONDIVIDI

Nei giorni scorsi l’associazione “Lettera 150”, posizione riportata dalla rivista Tecnica della Scuola on line in data 6 aprile 2020, si è espressa in modo tagliente verso i docenti che aspirano di vedere riconosciuto il proprio impegno di anni di precariato attraverso l’immissione in ruolo.

Sembrerebbe, nel leggere l’intervento, che l’unica possibilità per vedere riconosciuta la preparazione di noi docenti, o quantomeno la principale, passi attraverso la formulazione di compitini ben formulati rispetto all’esperienza trascorsa nell’affrontare e risolvere problemi, didattici ed educativi, anche spinosi. Naturalmente si dice il vero quando si afferma che la scuola debba produrre benefici per alunne ed alunni che la frequentano.

Ma la questione messa nel modo in cui è stata presentata dall’associazione “Lettera 150” appare mal posta, perché sembrerebbe quasi si abbia la convinzione che la formazione della futura classe dirigente di domani, attraverso l’immissione in ruolo di docenti impegnati in modo precario ma continuativo, sia affidata ad un drappello di persone prive di esperienza.

Tanti anni fa, in occasione della mia immissione in ruolo, dopo 10 anni trascorsi sulle montagne russe del lavoro precario, scrissi una lettera rivolta all’allora ministro, mai spedita al destinatario, utile per controbilanciare il punto di vista dell’associazione “Lettera 150”. La riporto di seguito in modo integrale.

“Signor Ministro Gelmini, il 23 agosto, dopo dieci anni di lavoro precario, sono finalmente diventato un insegnante di ruolo. Lei mi chiederà: “Contento? Riconoscente?”. Le sensazioni sono strane. Fino al 23 di prima mattina ero considerato un insegnante precario, anzi, un “Precario” (sostantivo), dalla fine della stessa mattinata sono stato promosso ad insegnante di ruolo e liberato dal problema del cosa farò da grande. “Va bene”, mi chiederà lei: “Signor Dessanti, è soddisfatto o no di avere abbandonato la condizione di Precario?” Vede, il problema sta nel fatto che anche se sono passati diversi giorni dal 23 agosto continuo ad andare a letto ed a svegliarmi con un vago senso di disagio. E’ come se in questi dieci anni mi si sia attaccata addosso una pellicola oleosa e collosa e non voglia che mi abbandoni all’ebbrezza della stabilizzazione. Ho trascorso diversi giorni ad interrogarmi senza trovare una risposta alla mia inquietudine. Poi ho voluto provare ad andare là dove si decidono annualmente le sorti dei miei colleghi e colleghe ancora precarie. Ho provato ad osservare con gli occhi dell’esterno. Ed allora ho capito. Perché ho visto rannicchiati in un angolo e speranzosi professionisti plurititolati, il più delle volte con esperienza decennale, che continuano a garantire il funzionamento del delicato servizio scolastico, quello che andrà a formare la futura classe dirigente del futuro, o più semplicemente chi potrà trovarsi un domani all’interno di una sala operatoria, nel ruolo di medico od infermiere, impegnato in delicate operazioni chirurgiche per salvare una vita in pericolo, forse anche la mia vita. Oppure la Sua, signor Ministro. Ed ho visto questi colleghi e colleghe pronti ad impegnarsi, in forma precaria, per garantire il funzionamento del servizio scolastico “oggi qui, domali là”, senza la possibilità di accompagnare gli studenti di oggi, ed i lavoratori di domani, alla conquista del bene fondamentale per garantirne l’efficienza e l’efficacia negli studi oggi e nel lavoro domani: la conoscenza. Oppure, se a lei garba meglio, “La competenza”. Vuole saperlo? Ho provato rabbia. Perché quei colleghi e quelle colleghe in attesa, ed io stesso fino ad una manciata di giorni fa, non trascorrono le proprie estati a prepararsi per garantire efficienza ed efficacia nel proprio lavoro, e non utilizzano il tempo del riposo, garantito per legge, per ripartire ritemprati all’avvio del nuovo anno scolastico, ma per capire quanti e quali saranno gli incarichi possibili nel mese di settembre, un’estate dopo l’altra, un anno dopo l’altro, un decennio dopo l’altro, con la consapevolezza di non essere trattati come lavoratori che fanno del proprio meglio per garantire il servizio per il quale sono chiamati a svolgere. Nossignore. Di volta in volta sono considerati usurpatori di un lavoro che in fondo forse non è loro dovuto (lo ha detto il suo predecessore, il Ministro Fioroni, quando ha considerato le graduatorie permanenti un ascensore attraverso il quale accedere ad una scorciatoia per avere un lavoro garantito). Oppure, e questo riguarda direttamente la sua persona e la sua coscienza, denti cariati da estrarre al più presto (lo ha affermato in una delle sue prime interviste, a proposito delle graduatorie permanenti, concludendo la frase dicendo, prevedendone l’eliminazione, “tolto il dente tolto il dolore). Così come di recente, sempre lei stessa, ha affermato che duecentomila insegnanti precari sono un costo che lo stato non si può permettere salvo poi affermare, a distanza di qualche giorno, che saranno assorbiti nel volgere di 6 o 7 anni. Anche se la matematica mi suggerisce che l’avverarsi di questa sua “profezia” richiederebbe un ritmo di assunzioni di almeno 30000 insegnanti all’anno. Francamente, un mistero matematico difficile da spiegare. Naturalmente di pari passo a questa confusione, ed attraverso gli incarichi annuali “oggi qui e domani là”, senza garanzia di coerenza e continuità didattica, prosegue anche la formazione della futura classe dirigente e dei futuri medici ed infermieri che in sala operatoria dovranno impegnarsi per non farci andare all’altro mondo. Nel frattempo io, da insegnante ormai di ruolo, provo a liberarmi dal velo appiccicoso che anche lei, attraverso le sue improvvide esternazioni, ha contribuito a spalmarmi addosso, mentre mi rendo conto che essere stato etichettato di volta in volta occupatore abusivo di un ascensore in salita, dente cariato da estirpare, lusso che la collettività non si può permettere, nonostante la mia passione nel lavoro che sarò chiamato a svolgere, renderà l’impresa improba.”

Ecco, questo è quanto pensavo, allora, degli effetti nefasti sulla qualità della mia vita e del mio lavoro per il fatto di essere stato chiamato da “precario”, con tutti gli obblighi del caso e nessuna garanzia, a fare funzionare nel modo migliore possibile la didattica nelle scuole alle quali sono stato assegnato.

Torno ai contenuti della missiva dell’associazione “Lettera 150” e vado a concludere. Naturalmente gli estensori di quel messaggio hanno ragione da vendere quando affermano che la formazione degli insegnanti dovrebbe seguire percorsi diversi, e di fatto la loro convinzione va ad ingrossare la schiera di buone intenzioni snocciolate di volta in volta da tutti gli altri attori sociali e da loro denunciate.

Pur tuttavia, ed in attesa che si approdi alla tanto ricercata perfezione, vorrei chiedere loro: ma siete veramente convinti che la preparazione di un’insegnante non di ruolo maturata in tanti anni di servizio in ambito scolastico, affrontando e risolvendo problemi, non possa essere considerata utile per ricoprire incarichi in ruolo nelle scuole?

Perché, attenzione, quanto viene richiesto dai provvedimenti di questo governo per l’assunzione in ruolo di queste colleghe e colleghi è un’esperienza maturata nel settore di riferimento per almeno tre anni negli ultimi 10 anni, e non se negli ultimi 10 anni hanno fatto i panettieri, i verdurai o i nullafacenti. Stiamo parlando di professionisti che in quei tre anni di impegno nel settore hanno affrontato la selezione più dura esistente, quella della realtà dei fatti, costretti obtorto collo a capire, anche attraverso corsi di formazione ad hoc e senza incentivi al merito, per quale verso affrontare i problemi scolastici in vista di una loro soluzione.

Si tratta di azioni didattiche ed educative concrete promosse nell’interesse di quegli studenti verso i quali in apparenza, voi accademici, mostrate strumentalmente interesse per dare addosso ad una larga platea di lavoratori che hanno tenuto su la baracca sgangherata delle nostre scuole.

Gianni Dessanti