
In questi giorni in cui tantissimi ragazzi sono impegnati con gli esami di Stato conclusivi del secondo ciclo di istruzione, la cosiddetta Maturità, da più parti arrivano considerazioni su quello che è considerato come lo scoglio più difficile da superare nell’ambito dell’istruzione.
Tra questi anche Daniele Novara, tra i più noti pedagogisti italiani, ha detto la sua raccontando il proprio esame.
“Io feci l’esame di maturità nel 1976 – ha scritto in un post su Facebook – e durante quei giorni vidi scene abbastanza suggestive. Tutte derivanti dall’idea che la scuola debba verificare i contenuti, un’idea che non ha senso.
Gli apprendimenti sono una faccenda applicativa.
Se fai il liceo scientifico dovresti essere in grado di mettere insieme risposte sul cambiamento climatico, il viaggio su Marte, le specie a rischio, i modelli matematici che ci permettono di tutelarci rispetto all’AI”.
“Il nostro esame è al limite del religioso – continua Novara – Del resto, quando Gentile nel 1923 fa l’impianto piramidale della scuola e all’apice mette il liceo classico, era ancora l’epoca di una scuola italiana basata su un modello religioso e di somministrazione della verità. Un sapere definitivo. E la maturità entra dentro questa visione: essere maturo rispetto a questo afflato definitivo di conoscenze intangibili che per anni ti abbiamo propinato”.
Da qui una considerazione: “Ci vuole senz’altro un momento di chiusura di un percorso ma questo non definisce la maturità, che è un concetto ineffabile e aleatorio”.
E così conclude il noto pedagogista: “Siamo davanti alla verifica e validazione dei cinque anni scolastici. Invece la domanda dovrebbe essere: dopo il periodo dell’età evolutiva, la scuola cosa ti ha dato e tu cosa ti porti a casa?”