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Pensioni quota 100, tra i beneficiari molti docenti nati fino al 1957

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Il governo è dunque al lavoro su un’ipotesi di riforma delle pensioni per introdurre quota 100 con un minimo di 62 anni di età e 36-37 anni di contributi. In attesa di conoscere i dettagli dell’operazione, che arriveranno all’interno della Legge di Bilancio di fine 2018, gli occhi di una miriade di lavoratori ultra sessantenni sono puntati sui paletti che l’esecutivo intende porre. Perché l’idea prevalente è che – per via dei noti vincoli del bilancio pubblico – la quota 100 “pura”, da intendere senza vincoli di età e decurtazioni economiche, non potrà mai passare.

Quanti potranno andare in pensione

Come già annunciato dalla Tecnica della Scuola, con minimo di 36 anni di contributi, lascerebbero il servizio solo nel 2019 ben 450 mila lavoratori in più rispetto alle norme previste dall’attuale sistema pensionistico Monti-Fornero comprensivo di innalzamento dell’aspettativa di vita.

Invece, con 37 anni, sempre di contributi, l’uscita riguarderebbe 410 mila lavoratori: la percentuale di pensionati potenziali, dovrebbe essere del 60% per il settore privato e del 40% nell’amministrazione pubblica, quindi almeno 160 mila dipendenti nella sola PA (probabilmente circa 100 mila appartenenti al comparto scuola).

Chi potrà lasciare il servizio

Sin qui i numeri dei beneficiari della riduzione dei parametri di accesso. Ma chi lascerebbe di fatto il servizio, anche cinque anni prima rispetto alle norme oggi in vigore? Secondo i calcoli degli esperti del quotidiano Il Messaggero, “i più avvantaggiati della riforma saranno coloro che sono nati nel 1957 e hanno lavorato almeno dal 1981” versando contributi senza interruzioni: “potranno infatti uscire nel 2019 con oltre cinque anni di anticipo rispetto alle regole attuali (sarebbero usciti nel 2024 a 67 anni e tre mesi con la pensione di vecchiaia o con 43 anni e sei mesi di contributi nel caso della pensione anticipata)”.

“La nuova misura inoltre – continua il quotidiano romano – darebbe un piccolo spiraglio anche alle donne nate nel 1953 che con la riforma Fornero del 2011 hanno dovuto rinviare la pensione di sei anni (raggiungendo la vecchiaia nel 2020). Ma dovranno comunque avere maturato almeno 37 (o 36 a seconda della decisione del Governo) di contributi”.

“Per chi è nato nel ’53 – scrive ancora Il Messaggero – ci potrebbero volere 37 anni di contributi (e quindi aver lavorato dal 1982 arrivando così a quota 103) così come per chi è nato nel ’54 (arrivando quindi di fatto a quota 102) e chi è nato nel 1955”.

Diversi insegnanti della secondaria

In generale, i lavoratori coinvolti nella modifica pensionistica allo studio del Governo, saranno nel 99% dei casi nati tra il 1953 e il 1957.

Per quanto riguarda la scuola, ci sono anche molti docenti della secondaria: si tratta di laureati che avendo la possibilità di riscattare il titolo di studio accademico, raggiungerebbero i 36-37 anni di contributi richiesti.

Ad esempio, un insegnante nato nel 1957 che ha iniziato a lavorare continuativamente dal 1985-86, quindi a 28-29 anni di età anagrafica, l’anno prossimo si ritroverebbe con 32-33 anni di anzianità contributiva (con gli eventuali “buchi” dei mesi di mancato servizio da precari coperti dalla disoccupazione).

Aggiungendovi la laurea, quindi quattro o cinque anni, arriverebbero alla soglia richiesta (36-37 anni) e potrebbero chiedere il pensionamento anticipato.

Lo stesso discorso, ovviamente, vale per i colleghi nati prima, quindi nel 1954, 1955 e 1956, con l’agevolazione che gli anni di servizio e di contributi accumulati dovrebbero essere anche meno.

L’alternativa delle pensioni di anzianità

Inoltre, “se il Governo dovesse prevedere solo la quota 100 insieme alla possibilità di uscire a qualsiasi età con 43 anni e tre mesi di contributi prevista dal 2019 ma non coloro che ne hanno 41 e mezzo (come inizialmente ipotizzato), sarebbe penalizzato chi ha cominciato a lavorare molto presto”.

Il danno per i precoci è evidente: per esempio, la pensione sarebbe negata ad un lavoratore “nato nel 1958 che ha cominciato a lavorare nel 1978, a vent’anni, perché ne avrebbe solo 61 di età”.

Infine, “resta aperto il tema di genere”, perchè “resterebbe inalterata l’età di vecchiaia (quella con la quale in genere escono le donne) a 67 anni favorendo l’uscita delle persone con carriere lunghe e continue in genere appannaggio dei maschi, prevalentemente residenti al Nord”.

Su quota 100 già a 62 anni, ricordiamo che al momento non si hanno notizie su eventuali applicazioni di disincentivi o riduzioni di assegno pensionistico. A breve, comunque, il governo scoprirà anche queste “carte”.