
“Rose nere per Katia. Ricordi di scuola”, di Alberto Brambilla, Nerosubianco Edizione, 13,00€, è in qualche modo il diario di un professore che racconta il suo rapporto con la scuola, senza edulcorare ciò che è oggi, ma anche prima in modo particolare, la nostra scuola.
E in effetti non c’è un passo, un riferimento che non rientra in quella grande baraonda che, volendo o no, risulta essere l’organizzazione degli studi in Italia, già a partire degli anni “80 del 900.
E il prof narra, talvolta perfino usando un linguaggio duro, ma anche ironico e perfino gergale talvolta, che poi è quello spesso frequentato dai ragazzi, i suoi raccapriccianti e insensati rapporti sia con le scolaresche sia con la dirigenza e perfino con i colleghi, sbandati, sfiduciati e perfino non all’altezza del loro compito.
Sicuramente in qualche passaggio della narrazione abbiamo notato delle iperboliche fantasticherie degli alunni, perfino incredibili, ma non da escluderli del tutto, mentre scorre il racconto con l’attesa di altre canagliate delle scolastiche, in ogni caso indifferenti ai suoi sforzi per “redimerli”.
Sicuramente appare evidente la crisi del docente, la sua impotenza talvolta a gestire l’esistente, mentre fanno capolino le vicende interne del prof, con i travagli della carriera, le circolari, le riunioni inutili e perfino le “gite”, che pochi ormai chiamano “viaggi di istruzione”, dal sapore grottesco: basta prenotare un bus granturismo e ammassarvi dentro i ragazzi per farli contenti.
E Katia dalle rose nere? Che c’entra? E si, perché, fra i grandi misfatti della scuola, c’è anche quella del mazzo di rose che viene portato in classe nel giorno di san Valentino a Katia. Che può sembrare inverosimile, se non fosse invece raccontato in questo libro, dove si intravvede pure la formazione sessantottina della voce narrate con la relativa delusione politica, mentre col tempo si rende conto che aumenta sempre di più la distanza con gli alunni, insieme alla incapacità di capirli, provocandogli un senso di inutilità e una serie di disturbi psicosomatici.
E poi la massa dei colleghi e del personale, le dispersioni dei compiti, l’inutilità spesso del proprio insegnamento, le svogliatezze con le birichinate e le sfrontatezze.
Allora, in questa luogo particolare, dove anche gli esami di stato assumo il loro reale colore, ecco Giorgione, il collega positivo, offeso nella sua dignità, si immolerà per dare un segnale forte a una scuola diventata fabbrica del nulla.
Alberto Brambilla ha insegnato in ogni ordine di scuole, dalle Medie inferiori all’Università passando anche per gli istituti carcerari. Dopo un remoto trascorso di calciatore, è passato allo sport immaginato e scritto, sia come docente sia come pubblicista. Si è anche provato nel genere romanzo con Viola come il sangue (Premio Coni 1999); ad esso sono seguiti libri di racconti: Palleggi in punta di tastiera (2007); Volate di inchiostro (2008); Quando rividi Maratona (2009); Tigri, micioni e altre quisquilie (2019); e da ultimo Il busillis della borraccia e altre storie vista Svissera (2021). Non mancano altri esperimenti narrativi come il recente Il gatto di Rembrandt (2022), viaggio interpretativo all’interno di un disegno dell’artista fiammingo; oppure Negro semen dedicato alla geografia sentimentale e pittorica di Tullio Pericoli. Nonostante questi colpevoli esercizi antiaccademici, è membro dell’Équipe Littérature et Culture Italiennes della Sorbona e fa parte del Comitato scientifico per l’Edizione Nazionale delle opere di Carducci. Storico della cultura e filologo, ultimamente si occupa di autori novecenteschi, in particolare Saba, Sereni, Chiara e Buzzati.




