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Se è così importante ricordare, perché è così facile dimenticare?

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Il deserto di ricordi è male, ma la jungla di ricordi è peggio. Ci lamentiamo spesso della nostra memoria (e, insegnanti e genitori, di quella degli alunni, probabilmente). Soprattutto della memoria cosiddetta dichiarativa (concetti, norme, principi, ecc.). Ma, se è così importante ricordare, perché è così facile dimenticare?

In realtà, l’oblio è un processo fisiologico. Il nostro cervello è fatto per ricordare, ma è fatto anche per dimenticare. Se ricordassimo l’immensa mole di dati a cui siamo esposti continuamente, rimarremmo soffocati da informazioni inutili e questo ci impedirebbe di focalizzarci bene sugli aspetti rilevanti per risolvere qualunque problema della vita.

Ecco perché il nostro sistema mnestico non va molto per le spicce e si comporta un po’ come la nostra mamma quando eravamo bambini: se col suo occhio vigile e allenato notava che un oggetto (poniamo un giocattolo) non veniva usato da tempo, lo toglieva sapientemente dalla stanza e lo sistemava nel mobile del corridoio, per poi farlo precipitare nello sgabuzzino o negli spazi siderali della soffitta se il mancato uso fosse continuato. “Vuol dire che non ti interessa. Comunque, dobbiamo fare ordine!”, era la sua perentoria e sacrosanta giustificazione di fronte alle nostre stizzite richieste di chiarimento (e soprattutto di ri-geolocalizzazione del bene inopinatamente scomparso).

Il principio della nostra memoria è più o meno lo stesso. Essa facilita il ricordo a comando solo di ciò a cui abbiamo dimostrato di “tenere” realmente. In questi casi, si attua il cosiddetto potenziamento a lungo termine, che si esprime attraverso modificazioni strutturali e funzionali nel nostro cervello (fenomeni di plasticità sinaptica), in particolare nell’ippocampo.

Questo avviene soprattutto con un lavoro di sovrastimolazione: ad esempio, con i contenuti a) che usiamo spesso; b) che suscitano in noi emozioni importanti; c) che ci consentono di affrontare le sfide della vita (scopo adattivo della memoria); d) che “lavoriamo” in modo personale, per esempio collegandoli con altre nostre conoscenze.

E’ per questo che uno dei modi migliori per aiutare gli alunni ad apprendere in modo profondo determinati contenuti è innanzitutto rendere questi emotivamente pregnanti ai loro occhi e indurre loro ad usarli per affrontare sensate situazioni-problema.

Quanto è stato appreso più superficialmente non sparisce, certo. Permane in quell’immensa biblioteca che è la memoria a lungo termine. Semplicemente, vi staziona in uno stato “dormiente”, senza riuscire a trovare un accesso che lo riporti facilmente alla nostra coscienza. Occorrono dei frammenti aggiuntivi di informazioni per riattivare quel contenuto sepolto (“La capitale dell’Islanda? Uhm…”. “Guarda, ti do un suggerimento: comincia con Rey…”. “Ah sì, ci sono: Reykjavik!”).

Contenuti appresi bene (e quindi ben rielaborati) corrispondono, sul piano cerebrale, a reti e percorsi neurali consolidati, vere e proprie “autostrade”. Percorsi tanto attivati da riattivarsi molto facilmente non appena abbiamo un frammento di informazione utile ad innescarli.

A proposito del nostro esempio sulla capitale dell’Islanda, come facciamo a ricordare come si scrive quella diavoleria grafemica del suo nome? Anche in questo caso, ci dobbiamo “lavorare su” (segno che ci teniamo) e creare le nostre “autostrade neurali”. Nel nostro caso, potremmo dire: “Beh, innanzitutto le ‘c’ sono tutte velari e scritte con la ‘k’ e poi le ‘i’ sono tutte diverse fra loro e procedono in ordine inverso a quello alfabetico: prima la ‘y’, poi la ‘j’ e poi la ‘i’”. Ovviamente, questo comporta che si ricordi, a monte, tale ordine.

Fatto questo lavoro, non si dimenticherà facilmente come si scrive la capitale dell’Islanda. Anche volendolo.

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