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Una didattica incentrata sugli stili sensoriali di apprendimento funziona o no? – Scienze per la Scuola

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Nuovo appuntamento con la rubrica Scienze per la Scuola: oggi parliamo del mondo dell’insegnamento e della didattica.

E’ inutile inseguire il mito dell’insegnamento disegnato sui vari stili di apprendimento. Meglio una “dieta” didattica di per sé ricca di elementi diversi.

Con buona pace dei fautori di questo metodo, non ci sono in realtà evidenze scientifiche che ne attestino l’efficacia. Tuttavia, gli stili di apprendimento basati sui modalità sensoriali esistono. Alcune persone mostrano effettivamente una certa preferenza per determinate modalità di presentazione dello stimolo in ingresso (mediatori didattici): visiva, uditiva, cinestesica, attraverso lettura-scrittura o multimodale (un misto fra questi).

Lo stile visivo è quello che caratterizza gli studenti che privilegiano diagrammi, quadrati, linee di collegamento e colori. Qui l’immagine prevale nettamente e la parola ha un ruolo secondario. E’ lo stile di chi si trova meglio, ad esempio, con le mappe concettuali.

Lo stile uditivo, contrariamente a quanto forse si pensi, non riguarda solo gli studenti che hanno bisogno soprattutto di ascoltare (l’insegnante che spiega, i tutorial, podcast, ecc.). Esso riguarda anche chi, per meglio apprendere, ha bisogno di parlare, di rielaborare a voce alta, ad esempio ripetendo, di spiegare ai compagni, di discutere gli argomenti in gruppi di lavoro. Questi studenti hanno insomma soprattutto nella voce (propria e altrui) il loro mediatore privilegiato.

Chi invece ha un estremo bisogno della dimensione pratica, di riportare costantemente ad esempi e ad applicazioni concrete quanto studia, dimostra uno stile cinestesico: da qui la preferenza per le attività laboratoriali e manipolative, per le prove di realtà e, in generale, per il cosiddetto “apprendimento situato” (centrato sulle competenze); per simulazioni, didattica ludica e giochi, studio di casi, applicazione dei concetti appresi, apprendistato cognitivo.

Altri studenti (stile di scrittura-lettura) preferiscono avere a che fare invece con i dati presentati soprattutto sotto forma di parole (anche perché più abituati a questi). E qui si distinguono dai visivi. La rielaborazione dei contenuti qui è prevalentemente scritta (non orale, come nello stile uditivo). Sono gli studenti che imparano preferibilmente attraverso libri, riscritture, appunti (letti o scritti), ecc. Questa è la tipologia di mediatori didattici tradizionalmente più usata nella scuola.

C’è poi chi ha bisogno invece di una integrazione fra più tipologie di presentazione delle informazioni in ingresso. Parliamo in questo caso di stile multimodale.

Che fare, allora? Costruire il curricolo sulle diversità di tali stili (“Con i visivi useremo prevalentemente questi mediatori didattici, con gli uditivi questi altri…”) non funziona granché. Più produttivo appare costruire una didattica che utilizzi per scelta mediatori didattici diversificati a cui esporre tutti gli alunni, per il più semplice dei motivi: perché è la realtà stessa ad essere multimodale, a presentare cioè stimoli di tipo diverso ad un cervello che ha comunque bisogno di diversificazione di modalità di presentazione per un apprendimento più efficace.

Facciamo un esempio. Immaginiamo un insegnante in una lezione, poniamo, sulla fotosintesi (su una o più ore). Comincia con la lettura di un testo e sollecita la presa di appunti in classe (aspetti particolarmente graditi per lo stile scrittura-lettura), con tanto di spiegazione dei punti più importanti e difficili. Dando però anche la possibilità agli alunni di rielaborare oralmente tali contenuti attraverso domande, osservazioni, riflessioni e riformulazioni personali, prima individuali e poi con un breve lavoro in piccoli gruppi di due o tre componenti (mediatori, questi ultimi, apprezzatissimi dagli uditivi).

Fa poi partire un software in cui vengono simulate le varie fasi del processo della fotosintesi, magari con possibilità di interazione da parte degli alunni. Avvia a questo punto un momento di valutazione formativa, anche attraverso esercizi applicativi o giochi, per verificare se gli alunni hanno compreso i passaggi più importanti dell’argomento che si sta affrontando e per chiarire eventuali dubbi. Interventi, questi ultimi, che manderebbero in visibilio i cinestesici.

Propone infine agli allievi una mappa concettuale, capace di offrire una visione d’insieme dell’argomento trattato (suscitando così la “ola” spontanea dei visivi).

Una lezione di questo tipo, per la diversificazione dei mediatori didattici proposti, andrebbe probabilmente abbastanza bene per tutta la classe. Inoltre, annoierebbe e stancherebbe meno, perché chiamerebbe in causa, di volta in volta, processi cognitivi e di controllo esecutivo diversi nei vari alunni.

Insomma, al posto di didattiche “sbilanciate”, come certe diete iperproteiche o incentrate su una varietà limitata di alimenti, meglio una didattica più simile ad una equilibrata e differenziata dieta mediterranea. Per la sua costitutiva complessità e modalità di lavoro, il nostro cervello (come il nostro organismo), ha infatti un bisogno vitale di una grande varietà dei suoi stimoli “nutrienti”. E di lavorare così alle informazioni in ingresso in più modi possibili.

Fra i tanti contributi possibili sul tema, v. ad esempio:

https://journals.sagepub.com/doi/10.2466/06.IT.4.2

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Sul VARK model di Neil D. Fleming e Colleen Mills, v. anche il loro storico articolo, comprensivo di questionario: https://digitalcommons.unl.edu/cgi/viewcontent.cgi?article=1245&context=podimproveacad

Il presente articolo fa parte della rubrica Scienze per la Scuola, curata da Giovanni Morello. Vedi anche gli altri articoli pubblicati:

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