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8 marzo: lotta per le quote rose, ma a scuola c’è bisogno delle quote blu

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L’unico settore che non ha bisogno delle quote rosa ma delle quote blu è quello dell’istruzione. Infatti, tra i docenti statali di ruolo, gli uomini rappresentano complessivamente poco più del 17%, mentre le donne sono l’82,7%.

Nelle scuole dell’infanzia gli uomini sono meno dell’1%, nella primaria meno del 4%, nella secondaria di I grado poco più del 22%. Nelle superiori i prof uomini sono circa un terzo. Tra i docenti della secondaria di II grado, a contribuire alla presenza femminile sono soprattutto i docenti di sostegno che fanno registrare una presenza di donne del 74,6%, contro una analoga presenza di genere del 65,4% tra i docenti su posto comune.

Sono dati dell’anno scorso e che per lo più conosciamo, ma che testimoniano il fatto che la via dell’insegnamento è lastricata di rosa e forse anche per questo, dicono taluni, si va man mano perdendo un certo rigore nella istruzione per un più accattivante e blando permissivismo mammone. 

Ma si va diffondendo anche l’imbarazzo dei pochi docenti uomini nei consigli di classe, a maggioranza femminile e nelle attività didattiche, mentre è scomparsa quasi del tutto, dati alla mano, la figura del maestro, quella tramandata dal libro “Cuore” e quella su cui si era basata tutta la pedagogia fino agli anni “50 del 900.

Il problema della fuga maschile dalla scuola, tuttavia, se si guarda con attenzione, bisognerebbe in qualche modo contrastarla, a favore di una presenza equilibrata di insegnanti di ambo i sessi e per comprensibili motivi non certamente di natura didattica, anche se ci sembra discutibile la proposta di riservare agli uomini per legge una parte delle cattedre, una sorta di quota per favorirne la nomina: le quote blu insomma.

La proposta nascerebbe infatti dal parere di esperti psicopedagogisti secondo i quali “la femminilizzazione dell’insegnamento può avere conseguenze distorcenti nella costruzione, tra i giovani, dell’immagine dei ruoli maschili e femminili all’interno della società”, così come accade in famiglia.

Il problema della scarsa presenza maschile a scuola semmai appare sempre lo stesso e cioè che non si rende appetibile l’insegnamento agli uomini, nel senso che non si creano le condizioni affinché questo lavoro dia adeguatezza remunerativa più soddisfacente e soprattutto restituisca quel prestigio sociale di cui tutti parlano ma che finora non si è riuscito a creare.

Sembra esserci la sensazione diffusa che darsi all’insegnamento sia una sorta di accettazione volontaria del fallimento professionale dell’uomo, mentre per le donne, sia la flessibilità di orario e sia la stessa funzione docente, possano concederle più spazi di manovra in ambito lavorativo e familiare, dedicandosi con uguale profitto sia alla famiglia e sia a questa gratificante professione educativa che diventa, forse, un prolungamento del mitico focolare. 

Ma di fronte a questa ritirata strategica dell’insegnante maschio dalla scuola, sarebbe pure bene che gli esperti si interrogassero, e non solo gli psicopedagogisti, anche perché un motivo più profondo dovrebbe pur esserci.