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Calo d’iscrizioni nella scuola in Veneto, che stenta a regionalizzare l’istruzione.

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Studenti in caduta libera nel Veneto con forte calo nelle scuole non statali, che prima attiravano oltre il 15% d’iscrizioni: la percentuale più alta in Italia. Già da 4 anni le scuole del territorio regionale veneto stanno perdendo iscritti, ma quest’anno l’emorragia si è fatta più consistente. Sono 6.616 i bambini persi, cioè gli alunni in meno che si avranno a settembre 2019 nelle classi. Tanti, davvero tanti specie se confrontati con il dato nazionale che registra un calo di 21.000 studenti.

Il che significa che poco meno di un terzo delle contrazioni di tutta Italia si sono avute in Veneto. A questo si somma che la maggior parte delle defezioni si registra tra i piccolini, quindi nelle scuole dell’infanzia e nelle primarie. Negli ultimi 70 anni di riforme scolastiche se ne sono fatte tante, ma tutte parziali ed effimere con l’aumento dell’anonimato, dello scaricabarile.

Tempo è che qualcuno si cominci a preoccupare dell’eccesso di statalismo insito nel sistema d’istruzione italiano, più avvertito al settentrione che al meridione, più dipendente per un sistema economico più povero. Da tempo si parla di differenziare lo stipendio dei docenti, come differenziato è lo stipendio dei laureati in azienda, in ospedale, in banca, nell’industria, ecc.. Nella scuola è giunto il tempo anche di cominciare a far scegliere all’utenza il Docente e non accettare quello che passa lo Stato padronale.

Ma leggiamo ancora una volta i conservatori scolastici:”Se sono vere le cose che si fanno circolare sulla regionalizzazione dell’istruzione, dei contratti collettivi di lavoro, della mobilità, dei concorsi, dei ruoli e degli stipendi del personale con conseguente negazione dell’universalità del diritto all’istruzione, la parola non può che passare alla mobilitazione e ad ogni forma democratica di lotta per fermare questa deriva autoritaria, negatrice dei diritti della persona e disgregatrice dell’unità nazionale. I diritti dello stato sociale, sanciti nella Costituzione in materia di sanità, istruzione, lavoro, ambiente, salute, assistenza, vanno garantiti in maniera uniforme su tutto il territorio nazionale”. Intanto il Governatore del Veneto, L. Zaia, ha benedetto la “bozza tecnica” di intesa sull’Autonomia del Veneto che la ministra, pure leghista e veneta, Erika Stefani, ha portato il 14 febbraio c.a., in Consiglio dei Ministri. Il Veneto è pronto a prendere anche molto meno di quanto 2,4 milioni di suoi elettori hanno delegato di prendere: tutte e 23 le materie previste costituzionalmente. Uno dei problemi meno facili da risolvere era il decentramento regionale legato al settore terziario dell’istruzione che, con l’ingente numero di personale addetto, porta con se anche una cospicua dotazione finanziaria, circa un miliardo di euro per la Lombardia e circa 600 milioni di euro per il Veneto. Ma Zaia pare che si limiti a chiedere solo la regionalizzazione dei Dirigenti Scolastici e, a scelta, quella del docenti di ruolo.

Ma così non pare la via migliore da seguire per una moderna riforma dell’istruzione nel Veneto, che esporta più di quanto importa e che, a parte la crisi, resta pur sempre un gigante economico ed un nano politico. Invece la scuola veneta necessita di più meritocrazia e di più aiuto per il sistema d’istruzione non statale, che per oltre il 15% in Veneto già sceglie, da tempo, la scuola libera. Nel Veneto, come nelle altre 19 regioni nostrane, resta da fare un’amara constatazione: tutto funziona meglio senza gli attuali partiti che hanno generato una casta e una partitocrazia frenante lo sviluppo territoriale al Nord e in misura maggiore al Sud.

Se pensiamo alla Sanità della R. Veneto del nostro tempo essa era di qualità già ai tempi della D. C.. Per il Partito Pensionati, schierati con il centrodestra, questo tipo di federalismo richiesto appare fuorviante dai problemi reali in primis la scuola che soffre di sistema burocratico e quasi senza meritocrazia per Discenti, Docenti ed anche per Dirigenti che non dovrebbero provenire dal sistema solo statale d’istruzione, ma anche e soprattutto dal privato delle professioni liberali, almeno in Veneto con sperimentazioni pilota.

Durante l’anno scolastico 2015-16 il Veneto aveva perso 1607 studenti, 2889 nel 2016-17, 4662 nell’anno in corso e oltre sei mila il prossimo, per complessivi 15.774 studenti in meno. A risentirne sono soprattutto le primarie con un meno 3.356 iscritti per l’anno scolastico 2018-19, mentre si ha un meno 1755 nell’infanzia. La provincia maggiormente colpita Vicenza (-1521), seguita da Treviso (-1386), Venezia (-1025), Verona (-828), Padova (-722), Belluno (-638) e a chiudere Rovigo (-496). Capire il perché del picco non è semplice.

Certo nascono meno bambini e questo spiega la discesa nei primi anni di istruzione ed è anche vero che la crisi economica può aver spinto gli stranieri a far rientrare nella terra d’origine le mogli e i figli. Ma forse non basta a spiegare il perché di una riduzione dei numeri così consistente. Anche perché ci sono regioni che continuano a incrementare i contingenti di studenti ed è il caso di Piemonte, Lombardia, Lazio, Toscana ed Emilia Romagna. Tutte invece con segni negativi le regioni del Sud e le isole. Per la scuola veneta «I numeri sono preoccupanti, perché significa che il Veneto si sta svuotando , spiega Sandra Biolo, segretaria veneta della Cisl-scuola, certo la crisi economica e occupazionale degli ultimi anni ha inciso, però è necessario fare un’analisi più approfondita, soprattutto per comprendere le ripercussioni economiche e sociali che questo può comportare». Le conseguenze sugli organici per ora non sono pesanti, anche perché si tratta dell’ultimo anno di una programmazione triennale che quando è stata fatta forse non aveva tenuto conto di segni negativi così pesanti. Il Veneto perde infatti 50 insegnanti, pochi rispetto al calo degli iscritti. Questo per ora potrebbe avere ripercussioni positive, magari con l’incremento di classi a tempo pieno.

Ma dal prossimo anno ci sarà sicuramente perdita di cattedre e forse chiusura di scuole. Certamente, oggi, non possiamo “non dirci federalisti”: perché ci viene naturale associare il federalismo alle più alte espressioni della democrazia politica, ai principi di autogoverno e di responsabilità diffusa nella gestione della “res pubblica”. Il federalismo, in questa ottica, rappresenta la concreta realizzazione di una “cittadinanza” compiuta, cioè possibilità di una più consapevole partecipazione di tutti i cittadini ai processi decisionali sul futuro della propria “città” (nel senso ampio di “polis”).

Viceversa: lo statalismo centralista ci rimanda alla presenza di una sorta di “grande fratello” illiberale e intrusivo, piuttosto che le ragioni della solidarietà e del welfare. In futuro prossimo la Lega, dominante in Veneto, potrebbe spezzettarsi nella sua non più monolitica classe dirigente se “porta a casa” solo parte delle 23 materie regionalizzabili.

Giuseppe Pace