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Cambiamento, formazione e addestramento

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Interessante analisi sulla formazione del personale docente della scuola italiana fatta da Giovanni Marconato esperto delle scienze dell’educazione e della formazione.

“La legge 107 del 2015 definisce la formazione del personale della scuola come obbligatoria, permanente e strategica.

Questa affermazione pone alcune questioni rilevanti se guardiamo ai processi di apprendimento dal punto di vista delle loro determinanti psicologiche e cognitive, soprattutto per quanto concerne la sua obbligatorietà.

La questione che voglio affrontare in questa sede è se a scuola sia possibile fare “formazione” degli insegnanti, ovvero se siano presenti le condizioni per fare autentica formazione o se esistano, al meglio, le condizioni fare “addestramento”. Le riflessioni che intendo proporre hanno, anche, lo scopo, di affrontare la questione della fattibilità della formazione, liberandone il significato e le pratiche da retoriche di varia provenienza e intenzione, così come dai rischi di indottrinamento, manipolazione e de-responsabilizzazione; nel tentativo di farlo, assumerò per i processi di apprendimento la prospettiva cognitiva e psicologica.

Innanzitutto, ritengo che non si debbano demonizzare o svalutare costrutti con cui abbiamo quotidianamente a che fare a scuola, considerandone alcuni degni di attenzione, quasi preferenziali ed altri, nella credenza comune di scarso valore, da evitare accuratamente (spesso più a parole che nei fatti). Mi riferisco, ad esempio, a due tra i processi cognitivi più utilizzati in ambito educativo, che corrispondono anche ad obiettivi di apprendimento e a specifiche strategie di insegnamento: la memorizzazione e la comprensione ma anche a due modalità di lavoro che favoriscono lo sviluppo di apprendimento ma che hanno implicazioni operative e risultati di apprendimento assai diversi: l’addestramento e la formazione. La svalutazione dei costrutti meno appetibili e meno ambiziosi (memorizzazione e addestramento) porta, nei fatti, a depotenziare anche le controparti più nobili, ovvero la comprensione e la formazione.

Nella rappresentazione comune, spesso implicita, “comprensione” sarebbe un obiettivo di apprendimento nobile, mentre “memorizzazione” risulterebbe in questa visione un obiettivo vile. Le cose, tuttavia, non stanno proprio così: la memorizzazione, quando è riferita all’apprendimento di una procedura, di una sequenza, di termini tecnici, di definizioni, di singole idee e concetti in isolamento è, in effetti, un obiettivo di apprendimento molto importante se, ad esempio, si deve imparare a fare qualcosa e a interagire usando un lessico da specialista. La “comprensione”, consistente nella capacità di connessione reticolare tra singoli concetti, rappresenta, invece, un punto avanzato del processo di apprendimento che è caratterizzato da processi cognitivi di ordine più elevato, ma che non può prescindere dalla memorizzazione. Nonostante questo, la memorizzazione assume connotazioni intrinsecamente negative (nessun insegnante affermerebbe mai, infatti, che lavora per la memorizzazione!). Tuttavia, il problema si pone quando a scuola, le attività didattiche sono ricondotte prevalentemente a questo obiettivo. La storia, la letteratura, la geografia non sono solo memorizzazione di nomi, autori, periodi, luoghi. Ecco che, allora, diventa importante assumere obiettivi di ordine più elevato, quali la comprensione, attivando in tal modo processi cognitivi di ordine diverso, che richiedono strategie di insegnamento e di apprendimento differenti. Nessun processo cognitivo è positivo o negativo, buono o cattivo in sé: il valore dipende dalla adeguatezza dello strumento allo scopo e al contesto.

Allo stesso modo anche addestramento e formazione sono attività di apprendimento importanti e nobili; ma sono attività che hanno implicazioni, caratteristiche e condizioni di realizzazione e successo profondamente differenti.

A mio avviso, la chiave di volta nel guardare a queste modalità di insegnamento e di apprendimento riguarda la tipologia di cambiamento che è associato a ciascuna. Ogni apprendimento è, anche, cambiamento: cambiamento della propria azione in un ambito di attività ma anche cambiamento “interno”.  Apprendere significa cambiare e il cambiamento può essere (psicologicamente e cognitivamente) superficiale o profondo, può coinvolgere solamente l’azione esecutiva o coinvolgere anche valori e principi.

Se a tutti si può chiedere a cuor leggero il cambiamento associato all’addestramento, non così è quando si parla di “formazione” nel senso proprio del termine.

Addestramento è imparare a fare qualcosa e ciò implica memorizzazione, applicazione e controllo esecutivo. È un’attività cognitiva finalizzata, sostanzialmente, al cambiamento di un comportamento esecutivo.

Formazione è cambiamento nel senso più profondo del termine: si tratta, infatti, di un cambiamento che implica mutamenti permanenti di tipo psicologico, valoriale, cognitivo e concettuale. Il comportamento cui è finalizzata la formazione richiede un cambiamento nel proprio modo di pensare, di relazionarsi, di considerare il proprio ruolo; implica, in certa misura, un cambiamento di tratti della propria personalità anche professionale.

Come si può desumere da questa descrizione, pur essenziale, nell’addestramento e nella formazione si lavora per promuovere cambiamenti profondamente differenti, soprattutto dal punto di vista psicologico: il primo cambiamento non ha sostanzialmente alcuna implicazione emotiva (ad esempio, non richiede un’intima adesione), il secondo esige una totale condivisione dei significati e delle implicazioni.

Nell’addestramento si cambia un comportamento e se ne adotta uno nuovo, anche aderendo ad una disposizione formale.  Nella formazione si cambia solo credendo.

Spesso la formazione non funziona (sempre che di vera formazione si tratti – cioè di un’esperienza di apprendimento del tipo descritto in precedenza) perché le persone che vi partecipano non intendono coinvolgersi emotivamente e cognitivamente come sarebbe necessario per attivare il cambiamento auspicato.

Le persone non intendono coinvolgersi o perché non sono adeguatamente preparate/motivate, o perché non condividono il contesto e le finalità del cambiamento ovvero, reattivamente, per conflitti latenti o espliciti presenti nell’organizzazione. A tal proposito non si deve, infatti, nascondere il fatto che a scuola accada anche che la resistenza al cambiamento (questione psicologica, del tutto “umana”) abbia che fare con difficoltà più o meno consapevoli a mettersi in discussione, a mettere in crisi l’immagine di sé come depositario di scienza ed esperienza, così  come che tale resistenza sia collegata a dinamiche relazionali e di potere interne – un gruppo orientato al cambiamento che contende, almeno potenzialmente, gli ambiti di controllo dell’organizzazione al gruppo egemone; questa situazione è diffusa in tutti gli ordini e gradi ed è alla base di molte difficoltà di ordine progettuale, relazionale e, generalmente professionale a scuola.

 

Anche qualora le condizioni “personali” per il cambiamento siano tutte presenti, il processo va innescato e gestito con modi e tempi di lavoro adeguati alla natura del cambiamento da realizzare, modi e tempi che tengano conto dei processi psicologici e cognitivi coinvolti; processi ben noti agli addetti ai lavori, i quali sanno quanto lunghi, impegnativi e a volte anche dolorosi essi siano e quanta cura sia necessaria nel gestirli per non scadere nella formazione selvaggia. Si tratta di tempi lunghi, perché non è semplicemente questione di imparare a fare qualcosa -aspetto operativo- ma è necessario anche che si disponga di tempo per riesaminare le proprie pratiche e i loro presupposti concettuali: serve tempo per attivare e gestire il “conflitto cognitivo” qualora le proprie rappresentazioni concettuali (implicite? spontanee? native?) confliggano con i nuovi sistemi concettuali richiesti dall’oggetto della formazione; serve tempo per rilevare la discordanza e procedere alla ristrutturazione. Tempi lunghi, quindi, e coinvolgimento anche emotivo.

Troppo spesso viene trascurato, forse anche perché ignorato, il cosiddetto “cambiamento concettuale”, il cambiamento dei presupposti teorici – spesso impliciti – che guidano l’azione. In ambito educativo e di istruzione, queste concettualizzazioni implicite possono riguardare l’idea di apprendimento che si ha e a cui si correlano modalità di insegnamento specifiche per promuoverlo, l’idea dello scopo della scuola e delle caratteristiche dei sistemi d’istruzione che possono realizzarlo, la visione che si ha del proprio ruolo, il cosa si è oltre il cosa si fa.

In ogni caso, un’azione didattica e un’esperienza di apprendimento per i fini propri e tipici della “formazione” che non tengano in considerazione le condizioni soggettive e di contesto necessarie a conseguire quei cambiamenti, sono destinate a fallire generando frustrazione tanto in chi promuove, quanto in chi è destinatario della formazione stessa. La formazione “impropria” si svolgerà in condizioni di difficoltà e sofferenza; se porterà a cambiamenti, questi non saranno stabili e di lungo periodo, bensì destinati a ripristinare nel breve periodo tutti quei comportamenti che si intendeva modificare.

Con, evidentemente, grave spreco di risorse psicologiche, cognitive, economiche ed organizzative.

Il vero cambiamento non avviene per ingiunzione, non avviene neppure adducendo argomentazioni razionali, non avviene sotto la spinta di slogan martellanti, non avviene per imitazione, non avviene neppure per “contaminazione”; il vero cambiamento è quello voluto, quello cercato, quello che è frutto di un processo personale, un processo di riflessione e di maturazione.

Ecco perché a scuola “formazione obbligatoria” è un ossimoro o, nel migliore dei casi, un gioco delle parti.

Quando a scuola si propone “formazione” (ad esempio quella per la “innovazione” della didattica, per l’inclusione, per le competenze, per la cosiddetta didattica digitale, per il superamento delle discipline, etc.) si punta a introdurre dei cambiamenti profondi nel modo di essere, non solo di agire, degli insegnanti: un cambiamento che ha i connotati propri della “formazione”, non dell’addestramento.

Ma a scuola ci sono le condizioni per fare vera “formazione” al di là che sia obbligatoria oppure no?

Innanzitutto, va tenuta presente la natura della scuola: a scuola non si costruiscono solo saperi ma anche valori, atteggiamenti, modi di pensare e agire. A scuola si favorisce lo sviluppo di persone non di automi. La scuola riflette un’idea di società, un’idea di futuro, un’idea di persona. I contenuti e i metodi non sono neutri rispetto a tutto questo. Le scelte riguardanti il curricolo, la pedagogia, la didattica determinano l’idea di scuola che si vuole realizzare. Come si può proporre un’idea monolitica di scuola quando è evidente che non esiste, né è mai esistita, un‘idea di scuola ampiamente condivisa nella società e nella politica? Questa è una ragione in più per comprendere le criticità intrinseche alla formazione e al cambiamento associato.

A scuola è difficile fare vera “formazione” anche perché il più delle volte non ci sono le condizioni di contesto per farlo: non c’è il tempo necessario, non ci sono i soldi, ci si accontenta di quello che si può fare, si aprono tante questioni e si lascia alla buona volontà degli insegnanti portarle avanti.

A volte la formazione viene imposta e allora gli insegnanti attivano contromisure difensive (esattamente come fanno gli studenti, pur per scopi diversi ): nella migliore delle ipotesi, quando “il dirigente lo ha voluto”, si fa qualcosa di diverso nell’immediato (attività che a volte possono avere  anche un senso didattico) ma sotto la spinta di un’ingiunzione si torna poco dopo alle pratiche abituali; nella peggiore delle ipotesi si agisce meccanicamente e in modo approssimativo con pessima didattica.

Solo in un numero limitato di casi le proposte formative colgono nel segno e producono cambiamenti duraturi, ma è più una questione di predisposizione personale ad accogliere il nuovo che l’effetto di qualcosa di pianificato.

Assumendo un approccio pragmatico, a scuola parrebbero esistere più facilmente le condizioni per attività addestrative che formative, ovvero attività per l’apprendimento di quelle che potremo chiamare procedure didattiche operative, di dispositivi didattici semplici. Sono, comunque, apprendimenti importanti perché il singolo insegnante potrà, successivamente, integrarli armoniosamente e stabilmente nelle proprie pratiche e decidere per proprio conto se e come cambiare.

Le considerazioni qui fatte riguardano gli aspetti psicologici e cognitivi della “formazione” di adulti, aspetti dai quali non è possibile prescindere per ottenere un apprendimento e un cambiamento profondo e permanente. Non ho evidenziato gli aspetti etici connessi con l’esercizio di una qualsiasi professione e che portano a sentirsi impegnati in un processo di miglioramento continuo. Non sempre il rigetto della formazione è dovuto a motivazioni nobili, che potrebbero anche configurarsi come obiezione di coscienza, ma ad un distorto e difensivistico (CORPORATIVO) uso della libertà di insegnamento e ad un debole senso del concetto di professionalità.

Come, allora, intendere il principio dell’obbligatorietà della formazione?

Sono due le dimensioni su cui focalizzarsi: le condizioni di contesto e i contenuti.

Relativamente al contesto vanno identificati spazi istituzionalmente assicurati per le attività di formazione. A scuola, nel normale orario di lavoro, manca il tempo anche solo per fare la parte formale della formazione, dimenticando pertanto che ogni buona formazione ha bisogno anche di tempi per la sua implementazione che richiede lavoro individuale e di gruppo. La questione “tempo” dovrebbe essere affrontata focalizzando l’impegno degli insegnanti su poche attività senza frantumarlo e disperderlo in mille progetti, pur di finalità sensata. Infine, si dovrebbero assumere obiettivi realistici e sostenibili; tanti progetti di formazione evidenziano obiettivi affascinanti, teoricamente condivisibili e auspicabili ma di difficile conseguimento. La formazione di qualità si caratterizza per obiettivi ben declinati e di cui si sia verificata la sostenibilità organizzativa. Non entro nel merito delle risorse economiche perché sono per definizione scarse.

Relativamente ai contenuti si dovrebbe dare priorità a quelli scelti dal singolo insegnante sulla base delle proprie priorità o da gruppi di insegnanti sulla base di obiettivi comuni consensualmente assunti. La formazione può assumere molte forme: il “corso” è solo una minima parte delle forme dello sviluppo della professionalità e, forse, anche la meno rilevante; significativi sono anche l’autoaggiornamento, il lavoro tra pari, la riflessione individuale e di gruppo sulla propria azione e il riesame della stessa.

Alla luce di tutte le osservazioni  fatte sopra, prima di parlare di formazione obbligatoria e strutturale (come peraltro è giusto sia in ogni professione), liquidandola superficialmente come l’ennesimo adempimento calato dall’alto o come un’attività cui resistono immotivatamente gli insegnanti che non si vogliono “mettere in gioco” (due mantra di opposta provenienza ma che, entrambi, ignorano o fingono di ignorare la complessa natura del problema), sarebbe opportuno interrogarsi sulle tante variabili in gioco nell’ambiente scolastico come ambiente di lavoro ad alta complessità intellettuale ed organizzativa, come contesto che esprime una visione di società e di persona (e, quindi, ideologicamente orientato), e sulle dinamiche personali, interpersonali e di contesto – strutturale e culturale- che rendono spesso la formazione più un fastidioso adempimento o un’indebita ingerenza nella libertà di insegnamento che non una reale occasione di crescita personale, professionale e organizzativa”.