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Coronavirus e didattica a distanza, sono un essere umano oltre che un insegnante

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Tra videochiamate con alunni, creazioni di classi virtuali, tutorial, monitoraggio e preparazione di materiale per i ragazzi, confronti con i colleghi, sfoghi e consigli, trovo il tempo di leggere qualche documento ufficiale del Miur, qualche articolo delle testate di settore.

E, soprattutto, mi tengo informato su quello che accade dietro la porta di casa, nel mondo, nella borsa, negli ospedali, al governo. Combatto quotidianamente coi miei bioritmi sballati, insonnia, picchi di depressione, noia, pudore di progettare qualcosa oltre la “siepe”. Perché sono un essere umano oltre che fare l’insegnante.

Occuparsi dei ragazzi, pensare a tenerli impegnati, mandare loro del materiale da studiare o il “videino” della spiegazione, prendersi cura della loro emotività alterata e confusa è nobile, giusto, corretto e aiuta anche noi docenti a scandire un pochino questa quotidianità completamente alterata. Non voglio detto bravo, non voglio detto grazie ma non voglio essere considerato neppure come una macchina che fa il suo dovere e che va settata e amen. A quelli che hanno sempre sostenuto che il ruolo degli insegnanti è un ruolo fortunato per le abbondanti vacanze, ricordo per inciso che i concorsi sono pubblici e che nessuno di noi è stato estratto a sorte, dietro ci sono investimenti personali e costruzione di un ruolo, non c’è la lotteria dietro.

Quello che stiamo vivendo TUTTI è mostruoso, la paura di fondo, l’incapacità di realizzare veramente quella che è la realtà che si sta vivendo, l’angoscia, la paura di pensare a chi delle persone della nostra cerchia di affetti e conoscenti è più debole di salute e quindi più a rischio. La difficoltà di reggere relazioni interpersonali casalinghe con ritmi che mai si sono avuti, difficoltà amplificate anche perché individualmente si vive in uno stato di angoscia e di clausura che esaspera i comportamenti e le reazioni. Questo lo viviamo tutti, docenti e non, tutti.

E questo massacra l’individuo. E questo stato di cose massacra i nostri alunni, i vostri figli, solo che loro non sanno nemmeno ben delineare i contorni della faccenda. Ed è splendido che ci sia la possibilità di stargli vicino e di poterli fare sentire amati e considerati e fargli respirare qualcosa della loro “normalità”, della loro quotidianità e al contempo qualcosa di diverso dello spazio d’aria interno alle loro mura domestiche.

Questo conta della “didattica a distanza”, non il prosieguo della programmazione, non chiudere l’unità di apprendimento o verificare se le competenze e le conoscenze ci sono e in che misura sono “arrivate”.  Poi certo, come in ogni settore, ci sono quelli che colgono l’occasione per non fare nulla o per ampliare la loro carriera di arrivista, o per dar sfogo al proprio ego, chi si pone domande “ma l’anno scolastico avrà valore” e “come li valuto agli scrutini”, non scrivo per sindacare gli approcci diversi, non ha senso e non importa, almeno non adesso. Adesso siamo in emergenza ed è emergenza per tutti.

Ma una cosa conta ed è importante considerare sempre, dietro il “filo” della connessione internet ci sono le singole realtà sociali e familiari dei nostri alunni, chi è seguito, chi no, chi non ha mai avuto in casa un pc e chi ha 4 mac, chi ha una famiglia analfabeta e chi ha una famiglia a pezzi, chi ha la famiglia di professionisti e chi no, e ora queste differenze non sono sfumature di cui ce possiamo fregarcene (come molti di noi in classe fanno, facendo lezione e interrogando e amen, cazzi suoi il resto). Ora le differenze si vedono, sono qualcosa che conta e che spara agli occhi, non possiamo far finta che non esistono e nasconderci dietro la piattaforma più figa o la mappa concettuale più professionale. A queste differenze stiamo cercando tutti di far fronte, di inventarci un modo per comunicare con quei ragazzi in difficoltà sociale e familiare, ci stiamo provando, ci stiamo inventando un modo ma fino ad un certo punto, c’è un limite che non ha ponti, siamo chiusi in casa e se viviamo in una società che non ha welfare e che se ne frega dei meno abbienti dobbiamo prenderne atto e se ne deve assumere la responsabilità chi nelle stanze alte per anni se n’è allegramente sbattuto o ne ha proprio usufruito. Come se ne sono fregati di avere una sanità seria, delegando a regioni che ne hanno fatto una merce di scambio, foraggiando la sanità privata e rendendo quella pubblica una fogna a cielo aperto, massacrando di turni il personale sanitario, contraendo le assunzioni e non spendendo il giusto per mezzi e strumenti.

Ben lungi da essere considerati eroi, come chi rischia la pelle in questi giorni lavorando negli ospedali.

Però tra la divinizzazione del docente e la sequenza di note ministeriali confuse e a volte subdole,  la sequenza di pseudo lotte sindacali, lettere dei dirigenti che fanno scudo e preparano il compitino nuovo per gli insegnanti, esiste una sfumatura intermedia. Esiste anche la possibilità di non sovraccaricare con scartoffie o con una docimologia grottesca e decontestualizzata, la possibilità di chiedere “di cosa avete bisogno per fare quello che state facendo?” e non un questionario di monitoraggio per verificare se stiamo aiutando bes, dsa, h o se stiamo usando la piattaforma x o y. Al momento stiamo facendo quello che possiamo, a spese nostre e combattendo con l’angoscia. Adesso quello che serve a noi per lavorare bene è un abbraccio e non una nota ministeriale che trasuda sfiducia o un dictat su quale piattaforma usare. Quello che facciamo lo facciamo perché lo reputiamo più adatto al momento e coerente con l’utenza che abbiamo, punto. Se volete saperlo, il questionario mandatecelo aperto, individuale e non vero-falso, sempre se interessa davvero a qualcuno sapere perché usiamo quella metodologia o quella chat o quella piattaforma.

Sì, abbiamo bisogno di un abbraccio e non altro.

Fabio Scaccianoce