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Antimafia: “Demistificare il mito mafioso tra i giovani e scuola a tempo pieno come hub-culturale”. Le parole di Roberto Di Bella

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“Dobbiamo demistificare il modello o il mito del boss mafioso tra i giovani: a Catania nel rione San Cristoforo ci sono ragazzi il cui mito è il capomafia Benedetto Santapaola, detenuto da oltre 30 anni, non può essere un esempio”. Lo ha detto il presidente del Tribunale per i minorenni di Catania, Roberto Di Bella, durante la sua recente audizione in commissione Antimafia, assieme alla procuratrice per minorenni del capoluogo etneo, Carla Santocono.

“Liberi di scegliere”, rete di supporto per allontanare i minori dai contesti mafiosi

Di Bella è stato promotore del protocollo “Liberi di scegliere”, un progetto nato con l’obiettivo di aiutare i giovani, le donne, le madri che vivono in contesti mafiosi, ad allontanarsi dal loro ambiente famigliare d’origine Da quando il protocollo ‘Liberi di scegliere’ è attivo vi hanno aderito oltre 150 minorenni, 30 donne e sette di loro adesso collaborano.  

La scuola a tempo pieno come centro-culturale

“Se le organizzazioni criminali continuano a essere attive nonostante la presenza forte dello Stato, significa che c’è una questione culturale”. Rimarca il presidente che aggiunge come sia necessario “puntare sulla prevenzione, sulla scuola a tempo pieno affinché sia un hub culturale.”Roberto Di Bella ha ricordato l’alto tasso di dispersione scolastica che conduce, spesso, “i minorenni a essere impiegati dalla criminalità, a 6-7 anni, anche come pusher nelle piazze di spaccio o essere utilizzati come “scudo” dai propri genitori per trasportare la sostanza stupefacente, ancora addosso a loro”. Il presidente Di Bella auspica che il suo protocollo possa diventare una legge con finanziamenti stabili: “per tenere al sicuro una madre e il figlio che aderiscono all’iniziativa ci vogliono almeno cento euro al giorno” e per le donne “c’è bisogno di avere un assegno di inclusione almeno fino a quando non saranno accompagnate alla loro piena autonomia”.
    Per loro “c’è un limbo perché – spiega il magistrato – non tutte sono o possono diventare collaboratrici di giustizia o dichiaranti” e al momento “i fondi arrivano soltanto dalla Conferenza episcopale italiana, uno Stato straniero” e per il resto c’è la “rete di assistenza di Libera per cercare una casa e un lavoro”.