
Il momento più tragico dell’intera opera, quello culminante con la dannazione di Don Giovanni che, su libretto di Lorenzo Da Ponte e musica di Mozart, scompare tra le fiamme, deciso a non pentirsi dei suoi misfatti, benché consapevole della sua mancanza di fede, del suo rovesciare, seducendo donne sposate, l’ordine sociale e soprattutto colpevole dell’assassinio del Commendatore, che voleva difendere l’onore della figlia, donna Anna, diventa invece una specie di esecuzione tra il mafioso e il gangsterismo, per impulso esclusivo della vendetta, giurata dal promesso genero, don Ottavio.
Un momento intimo, dunque, sottolineato dal duetto fra Leporello e Don Giovani, con il sovrastare della potenza del Commendatore, propenso a salvargli l’anima, diventa una esecuzione pubblica, un assassinio su commissione, un killeraggio alla Chicago anni Trenta, un regolamento di conti, sottolineato da una sventagliata di mitra contro il proverbiale seduttore, mentre del Convitato di pietra non vi è traccia, neanche l’ombra, se non dietro le quinte il sentore di una voce, la sua voce indignata ma anche disponibile al perdono.
Una bara e delle corone di fiori che cascano, sul palco, forse a simboleggiare la presenza del fantasma convitato, riempiono l’ultima scena, mentre ci si sforza di scorgere, come è nel libretto e come recita Leporello, la bianca statua del Commendatore, invitato a cena con tutti gli onori, ma che purtroppo non c’è, non appare, non si vede, da vero fantasma, perché al suo posto si dispiega una sorta di squadrone di killer, un plotone di esecuzione in doppiopetto col mitra in braccio, che, già sul palco, ora lentamente lo occupa per intero e ammazza Don Giovanni, ma mentre sale la scala in cerca della fuga, si presume, e non mentre la scende verso dove è invece atteso.
Perduto pure l’alto simbolismo che ha percorso l’intera letteratura popolare, ma anche quella aurea, del pasto ferale col morto dentro il cimitero, in uno scambio lugubre fra vita e morte, fra nutrimento e frutto della terra, in una simbiosi in cui l’uno è parte della stessa parte dettata dall’esistenza che vuole esplodere, concimando e rifiorendo.
Al suo posto un ristoratore, in giro come il coniglio di Alice, che imbandisce una tavola in un luogo che non è luogo, togliendo al vero servitore, a Leporello, quel compito fatale ma non voluto, per furbizia antica.
E poi, quante pistole e quanti mitra, quanti passeggiatori sulla scena, a confondere e “straniare” (Brecht non c’entra nulla), ingolfandola, ma che invece pretende intimità, passione, attesa per il certo finale atroce, cosicché perfino i costumi si impasticciano tra vestiti a righe, stile Al Capone, e marsine con volute secentesche dentro un festino carnascialesco che perde così il suo spessore vitale, rinfrancante e di buon auspicio.
Un Don Giovanni ribattezzato insomma, quello in rappresentazione a Catania in questi giorni al teatro Massimo Vincenzo Bellini, bizzarro, nelle sue corde di abiti civili, direbbe Pirandello, mentre spaventata, ci è apparsa, l’orchestra, intimorita forse da questo inatteso putiferio sullo sfondo, su cui però, onore al merito, i cantanti, compresi i due protagonisti e le donne sedotte dal casanova, hanno dato segni di buona tenuta vocale, di padronanza del testo, di presenza scenica per ciò che è stato loro assegnato. Maestoso, nel senso di vera ampia compiuta maestà, il coro del Bellini diretto da Luigi Petrozziello. E soprattutto qui, onore al merito.