Home I lettori ci scrivono Istituti professionali e reggenze: una situazione particolare

Istituti professionali e reggenze: una situazione particolare

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Un problema collaterale ma di non poca importanza per la scuola è costituito dal modo in cui di essa si parla sui quotidiani. Lo scorso anno, per esempio, è stato punteggiato dal susseguirsi di notizie scandalistiche: la gran parte di queste riguardava insegnanti “bastonatori” ed insegnanti “bastonati”.

Una quota inferiore di notizie denunciava i comportamenti dei dirigenti scolastici, accusati (a torto o a ragione) di abuso dei loro poteri. Abbiamo letto di processi sommari, celebrati sulle colonne dei quotidiani; processi non sempre in grado di cogliere le diverse situazioni assurte agli onori della cronaca nella loro complessità. E qui voglio inserire una esperienza personale.

Lavoro all’ I.I.S. “Paolo Boselli”, il più grande professionale di Torino, con tre sedi ed un corso serale. Ho letto, in questi giorni, dei “movimenti” che hanno interessato i dirigenti torinesi. Nel “valzer dei presidi” (uso le espressioni dell’articolo de La Stampa apparso il 17 luglio scorso) “…molti sono quelli che, da istituti di primo grado passano a scuole superiori. Per contro, uno passa dalle superiori alla primaria: … [ometto i dati personali, che qui non sono rilevanti] lascia il “Boselli” per l’Istituto comprensivo di Orbassano”.

La cronaca cittadina, in questi ultimi due anni, si è occupata abbastanza spesso del “Boselli”: non sono mancati dissidi interni e, per dirla tutta, non sempre, a mio avviso, il comportamento del dirigente è stato prudente. Alla fine, però, l’Istituto è andato avanti bene: come sempre accade, accanto ad una parte del corpo docente sostanzialmente contenta della gestione dirigenziale, ce n’è stata una critica ed un’altra molto critica.

Niente di nuovo o di strano: il mugugno alligna nelle sale professori né potrebbe placarlo il miglior dirigente del mondo. Ritengo però che, prima di spostare il dirigente a mo’ di pacco, i funzionari preposti avrebbero dovuto interrogarsi a fondo sull’andamento generale della scuola e sulle stesse qualità del dirigente che, per quanto ho potuto notare, non sono inferiori né per preparazione specifica, né per cultura a quelle di altri suoi colleghi.

Il “Boselli” non è soltanto il più grande istituto professionale di Torino, ma è noto per la capacità del corpo docente di accogliere quei “casi difficili” da noi numerosissimi e assenti in altre scuole più blasonate. Parole, come “accoglienza” ed “inclusione” , ormai divenute insopportabili e vuoti slogan, al “Boselli” vengono praticate ogni giorno: il corso serale è un esempio di convivenza tra studenti di tutte le età, di tutte le parti del mondo, spesso scartati dagli altri istituti e che nel nostro contesto trovano modo di emanciparsi ed approdare, magari con fatica, ad un titolo di studio.

Non troppo diversa è la situazione dei corsi diurni. Il “Boselli”, insomma, nel complesso ha funzionato bene, nonostante gli articoli sui giornali e nonostante i momenti di tensione: quindi un “declassamento” (così appariva agli occhi di qualsiasi lettore il passaggio del DS dalle superiori all’ Istituto comprensivo) per giunta pubblico e immagino inaspettato come quello che ha dovuto subire il dirigente, è davvero ingiusto, soprattutto alla luce di quel che è accaduto in seguito, fatto che stupisce davvero: infatti il nuovo dirigente ha in questi giorni rinunciato all’incarico. I funzionari preposti, ammesso che ce ne fossero le ragioni, non dovevano garantire un avvicendamento certo? Invece un istituto con più di duecento dipendenti, tre sedi ed un corso serale verrà affidato (come si evince dal sito dell’USR) ad un reggente.

Il “Boselli”, nel suo complesso, aveva a mio avviso anticorpi sufficienti per sanare le ferite dello scorso anno: sarebbero stati necessari un po’ di lavoro collettivo, un po’ di pazienza e un maggior dialogo tra le parti in conflitto. Ed invece eccoci di fronte ad una soluzione drastica, che interromperà la continuità e obbligherà alla ricerca di difficili, nuovi equilibri. È inevitabile porsi una domanda: un preside reggente potrà dedicarsi alla scuola meglio del precedente dirigente, che conosceva la scuola da tre anni e si doveva occupare di un unico istituto?

La scuola è un ecosistema fragile. Avrebbe bisogno, a tutti i livelli, di attenzione, di prudenza, di sensibilità e di intelligenza. O almeno, visto che si vive in un mondo reale, di una dose sufficiente di queste quattro preziose qualità.

Invece – ed è da quasi due decenni che lo verifichiamo – il governo della scuola è praticato in modo distratto, senza tenere in alcun conto la realtà effettuale. Negli ultimi vent’anni le riforme Berlinguer, Moratti, Gelmini non hanno fatto altro che applicare alla scuola modelli ad essa estranei, primo fra tutti quello aziendalistico, singolarmente inadatto in un luogo in cui, alla base di tutto, ci dovrebbe essere la gratuità del sapere e non la logica del profitto o l’utilitarismo rozzo. La “buona scuola” di Renzi ha consolidato e costituito l’epitome di luoghi comuni sulla scuola “moderna”.

L’hardcore del modello renziano si riassume in poche parole: gerarchia, meritocrazia, privatizzazione. Per la prima volta, ne La buona scuola, abbiamo visto scritto, nero su bianco, che lo Stato NON può avere i soldi necessari per una scuola pubblica dignitosa; parallelamente, la discussa “chiamata diretta” dei docenti, già vagheggiata da Aprea, ha trovato forma.

Sono soltanto due emergenze di una situazione fortemente critica. Ultimo anello di una catena di comando, i dirigenti sono troppo spesso chiamati a sorvegliare e punire: ne è testimonianza concreta l’aumento impressionante del contenzioso (almeno in Piemonte) determinato da una pioggia di contestazioni di addebito che i dirigenti fanno cadere, anche qui a torto o a ragione, sui lavoratori sottoposti. E se vedere cadere le teste dei colleghi in modo ingiustificato mi preoccupa molto, mi preoccupa anche vedere che la stessa sorte tocca ai dirigenti, trattati non come persone ma come “cose” da destinare a nuovo indirizzo.

Il modello di scuola che deriva da tale situazione non ha nulla a che vedere con la “comunità educante” di cui anche nell’ultimo contratto si parla, evidentemente a vanvera; ha piuttosto molto a che fare con quella rimetta di un giornalino d’altri tempi che dice “alla prima che mi fai ti licenzio e te ne vai”. E non si costruirà, così facendo, né una scuola migliore né una società meno ignorante.

Giovanna Lo Presti