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Gli operatori della scuola si dovrebbero indignare per il disinteresse della politica alle loro richieste

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Perdonatemi ma siamo davvero tutti buffi. Buffa questa Italia. Tutti uniti nel coro di condanna e di indignazione per una frase poco opportuna e ricca di quanto più si possa dire in negativo. Giusto.

Ma sarebbe ancora più giusto se in linea con un atteggiamento, il nostro, di indignati combattivi quando non siamo mai presi sul serio, rispettati e riconosciuti nel nostro ruolo e dell’Istituto che rappresentiamo e ci rappresenta, divenendo al contempo fruitori ed operai dello stesso.

Ci indignammo per ogni frase poco opportuna, come ad esempio la parola “riaddestrati” adoperata dall’ormai andato arrogante e presuntuoso ministro Bianchi.

Ma non ci indigniamo dinanzi all’indifferenza o se volete non ascolto della Politica, sorda alle nostre richieste di un salario che sia dignitoso almeno per una decente sopravvivenza alla sopravvivenza, attraverso il quale si riconosca in un certo qual modo la nostra professione e funzione sociale.

Non partecipiamo uniti coralmente nella lotta che ci invita a manifestare democraticamente e civilmente sulle piazze del nostro Paese, perché deleghiamo ad altri il ruolo che dovremmo fare nostro, tenuto conto che questi altri sono gli attori che poi siedono ai tavoli per quantificare una somma che sia il giusto prezzo da riconoscerci e per riconoscerci. Forse per azzittirci. Non ultimo la decisione molto arbitraria di non firmare un contratto ponte che ci permettesse di usufruire degli arretrati, che specie in questo tempo difficile possono tornare utili, e perché comunque sono nostri: il tempo per lottare con pugno duro per uno stipendio e non soltanto per questo, sarà offerto nell’occasione del prossimo contratto. Ma loro non sono noi. Rappresentarci non significa sempre e comunque sentire e parlare in unica voce.

Concita, avrà davvero sbagliato; ma quanti sbagliamo nel nostro quotidiano e forse non ci silenziamo in atto di scusa e di perdono per la cazzata sparata!?

Io mi indignerei per l’assenza del comparto Scuola nella sua compattezza dinanzi alla vera indignazione che dovremmo combattere, azzittire, rivoluzionare: quella politica e sociale che pretende da noi di assolvere, ognuno, ai ruoli che sono di competenza di altri istituti, come la famiglia ad esempio, la stessa società, la politica.

Io mi indignerei dinanzi alle chiacchere e alle decisioni in merito alla nostra funzione, alla perdita di tempo che tanto toglie alla didattica, alla burocrazia incalzante che ci destituisce per farci indossare abiti da scribattini, gestiti da funzionari talvolta lontani dal loro essere un riferimento, per espletare il servizio nella più denigrante rappresentazione delle proprie frustrazioni.

Io mi indignerei dinanzi allo specchio sul quale riflesso è il nostro volto. Poiché soltanto di fronte ad esso la nostra nudità non ha riparo, e non trova veli per coprire financo quel nostro brontolare e lamentare come gli ebrei nel deserto, una volta lasciato l’Egitto per raggiungere la terra di Canaan: la terra promessa dove scorre latte e miele.

Se Concita si è espressa indignandoci, significa che dopotutto glielo abbiamo permesso nel presentare alla Paese, e fors’anche al mondo, una Scuola non in grado di educare al rispetto e al riconoscimento. Non in grado di farsi rispettare, e di conseguenza consentire ciò di cui la Storia gli ha sempre dato atto.

Dovremo abbattere molti luoghi comuni che accompagnano la distinzione inesistente di una Scuola classista che vuole ancora oggi sul piano degli indirizzi iscrivere il valore didattico e spesso professionale, segnandone un solco profondo, financo nella psicologia dell’individuo tanto da sentirsi frustrato nella rassegnazione di appartenere ad uno stato sociale piuttosto che ad un latro, come accade in India, avvertendo il proprio successo scolastico che si esprime in eccellenze, negli studi, e successivamente nel mondo del lavoro, come un riscatto.

Siamo ancora ancorati a tutto questo. E di tutto questo io mi indigno, e vorrei ci indignassimo tutti.

Mario Santoro

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