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I 3 paradigmi dell’insegnamento nella scuola inclusiva

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Al decimo convegno Erickson sulla Qualità dell’integrazione, cinquemila persone hanno come sempre intensamente discusso, ascoltato, parlato, negoziato idee ed esperienze per una vera qualità.

 

In queste discussioni il destino dell’insegnare nella scuola inclusiva è stato sintetizzato in 3 paradigmi base:

 

– Pedagogia, pedagogia, pedagogia. È una questione storica negativa italiana la formazione iniziale degli insegnanti quanto meno opaca sui fondamenti teorici e pratici dell’insegnare, soprattutto nella scuola secondaria. Il tema non riguarda l’inclusione, ma l’istruzione tout court di tutti gli insegnanti, per tutti gli studenti, qualsiasi sia la loro condizione. Dunque è necessario che la pedagogia diventi davvero il cuore professionale dell’insegnare

 

– L’inclusione è l’eterogeneità. È giunto il tempo sociale, economico, antropologico, di considerare l’idea di scuola inclusiva come l’unica idea possibile di scuola normalmente democratica e capace di vincere le grandi sfide della modernità. Riconosciamo l’eterogeneità umana come condizione naturale delle società e delle persone in cui nessuna diagnosi o certificazione o stigma sociale risponde al riconoscimento dell’originalità e unicità di ogni singola persona, che non è una sommatoria di performance e di sintomi, ma qualcosa di più, qualcosa di diverso perché tutti siamo orgogliosamente imperfetti e tra noi diversi. L’inclusione, nell’epoca della globalizzazione è quindi tema trasversale e universale per tutti. Ciò significa considerare l’inclusione la questione centrale e non accessoria e non solo dedicata a chi per scientismo, ideologia o pregiudizio viene considerato una specie di dio minore.

 

– Contrastare il neo darwinismo. L’epoca attuale presenta condizioni economiche e sociali, nazionali e internazionali, che rischiano nuove forme di discriminazione, di diseguaglianze che sfidano l’orizzonte democratico dei nostri sistemi educativi. Nell’evoluzione del welfare e delle politiche sociali attuali il rischio di chi non rientra nelle idolatriche categorie della perfezione competitiva, è di essere sottoposto a nuovi modelli di cura isolante. La tendenza può determinare la messa al centro del sintomo e non della persona, con la conseguenza di un assistenzialismo buonista e di una falsa inclusione.