
“Mediterraneo corsaro. Storie di schiavi, pirati e rinnegati in età moderna”, è il nuovo libro di Giovanna Fiume, già ordinaria di Storia moderna all’Università di Palermo, edito da Carocci. Ed è saggio importante per capire, fra l’altro, il motivo per cui la Sicilia, per esempio, come faceva rilevare Leonardo Sciascia, non è riuscita a diventare potenza marinara, anzi, la maggior parte delle sue coste vennero disertate per costruire all’interno, mentre alle vie di collegamento rivierasche venero preferite quelle più distanti del mare. Civiltà “terragna” dunque, dal mare il pericolo era rappresentato dai famigerati turchi, in una sommaria definizione in cui si intrecciavano tutte le civiltà islamiche bagnate dallo stesso mare, e su cui una vasta letteratura indaga, mentre più che “nostrum” era pure africano, ma anche europeo, levantino, slavo, asiatico. Un “lago”, in qualche modo, frequentato da pirati, ma anche da avventurieri e ricche consorterie, tutti in cerca di bottini e di schiavi, di arrembaggi e ladrocini, di fortuna e di interessi commerciali. Caro alle citta marinare, non fu certamente la battaglia di Lepanto a togliere dagli affollamenti guerrieri e dai contrasti religiosi e politici questo “stagno attorniato da rane”, né gli interessi mercantili, in quell’arco storico che va fra il 1500 e il 1800, dal momento che la ricchezza si cercava fa quelle onde corseggiando, cattivando, rinnegando, riscattando, secondo una ripartizione su cui si fonda questo singolare libro di Fiume.
Dunque, attraverso la guerra di corsa, quella sorta di “patente governativa” con cui certe navi potevano scorrazzare impunemente, si razziavano altre navi e città costiere alla ricerca di bottino ma pure di persone, di schiavi da mettere ai remi o deportare, secondo il fabbisogno del mercato, nelle campagne o nelle dimore, patrizie e no. E non corseggiavano solo i musulmani (mamma li turchi accumunati ai mori), ma anche i cristiani e con similare accanimento e tracotanza, e talvolta perfino stipulando accordi reciproci, chiedendone il riscatto o legandoli ai remi o alla zappa. Riscatto che, tiene a precisare Fiume, era ancora una volta ambivalente, senza cioè nessuna prevalenza dei cristiani più ricchi, rispetto ai musulmani, e questo nonostante fosse stata creata una sorta di lucrosa agenzia di scambio a Livorno, abilitata a fare da tramite fra la famiglia e il prigioniero. Tuttavia, accadeva pure che il mancato rientro in patria, costringeva, ma anche no, tanti di questi “capitivi” a rinnegare la fede, ma facendo talvolta “carriera”, come capitò al calabrese Uccialli che divenne comandante di una città come Algeri, una sorta di Tortuga del mediterraneo con 60mila abitanti e 20mila capitivi, mentre il genovese Murad (figlio di una captiva riscattata) divenne addirittura pasha e una ragazzina, Cecilia Baffo, rapita a 12 anni, diverrà la moglie di Selim III.
Certamente, molte di queste conversioni furono di comodo, come l’apostasia di certi ecclesiastici, di tale fratel Giuseppe, che prima rinnega il cristianesimo, poi si pente, e infine muore da martire. “Ero diventato una bestia”, dirà qualcuno per giustificare la conversione a Maometto, come preciseranno anche molte donne, e furono tante, che vennero acchiappate, ma convertitesi per sfuggire talvolta al marito o a pietose condizioni, come accadde alla veneziana Franceschina che riscattò le figlie ma non i due maschi, uno dei quali divenne appunto pasha Murad. Storia complessa e avvincente, con situazioni che talvolta sfidano il thriller, questo saggio di Fiume si caratterizza per la sua attenzione soprattutto su singole storie o su singoli gruppi, ai pirati più che alla pirateria, agli schiavi più che alla schiavitù. Testo minuziosamente documentato e ricchissimo di notizie, dà pure conto della coeva tratta degli schiavi nelle Americhe che fu ben altro.