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In pensione a 62 anni? Per l’Ocse è un atto di egoismo che condanna i giovani ad assegni bassi

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L’Ocse ha preso di mira l’età di pensionamento dei lavoratori italiani: l’Organizzazione per la Cooperazione e per lo Sviluppo Economico non solo torna sulla necessità di aumentare l’età del ritiro effettivo, ma si sofferma anche sul rischio che scoppi una vera e propria bomba sociale in futuro per i giovani che hanno cominciato a versare contributi da pochi anni e che potrebbero avere assegni di quiescenza inadeguati. Per tutelare i giovani maggiormente, sostiene ancora l’Ocse, servirebbe allora una preparazione scolastica migliore.

Un problema drammatico…

Stefano Scarpetta, responsabile dell’area Lavoro e affari sociali dell’Ocse, ha parlato di “problema drammatico di adeguatezza delle pensioni”, a margine della presentazione del Rapporto Welfare Italia, da quale risulta anche che l’Italia è all’ultimo posto in Europa per sistema di transizione scuola lavoro.

“L’idea che se si mandano in pensione prima le persone si creano posti di lavoro “non funziona”, ha detto Scarpetta rispondendo a una domanda sull’anticipo ‘Quota 100’.

Piuttosto, ha aggiunto, “credo che anche in Italia ci sia bisogno di migliorare il sistema scolastico e universitario per aiutare i ragazzi a comprendere quali sono le filiere di studio. L’Italia come altri paesi europei ha disinvestito nella scuola tecnica di qualità e questa va assolutamente rilanciata”.

Gli effetti della discontinuità lavorativa

Sempre il capo dell’area Lavoro e affari sociali dell’Ocse, si è soffermato sul fatto che le nuove generazioni avranno probabilmente carriere discontinue, poiché frutto un sistema contributivo che lega le prestazioni ai contributi versati significheranno il futuro trattamenti di pensione bassi. Cinque anni persi di contribuzione, ha spiegato, valgono il 9 per cento in meno della pensione.

“Bisogna agire sul mercato del lavoro – ha detto – quella delle pensioni non adeguate è una bomba che esploderà se non la si affronta. Le generazioni del 1980 cominciano a contribuire tardi, si troveranno con pensioni basse”.

La ricerca di Welfare Italia sottolinea come il sistema di protezione sociale sia sotto pressione soprattutto per l’andamento demografico (continua a crescere l’età media mentre diminuiscono i nuovi nati) e come sia necessario integrare la previdenza e la sanità pubblica con quella privata. Nel 2050 ci saranno probabilmente 1,1 pensionati per ogni lavoratore e una percentuale di spesa pensionistica sul Pil del 17,6% con 1,3 punti in più sul 2018.

L’importanza della previdenza complementare

La spesa pubblica totale in servizi di protezione sociale nel 2018 – spiega Welfare Italia – ammonta a 488,3 miliardi con la componente pensionistica che vale il 57,6% del totale (281,5 miliardi).

“All’interno di questo contesto – si legge – l’integrazione pubblico-privato si configura come un meccanismo in grado di far fronte non solo ai crescenti vincoli di spesa del pubblico e al dualismo geografico, ma anche all’evoluzione dei bisogni dei beneficiari di servizi di welfare. A fine 2018 sono censiti 7,9 milioni di aderenti a forme di previdenza complementare (circa il 30% della forza lavoro e nella scuola è gestita da Espero) mentre il segmento della sanità integrativa coinvolge 12,6 milioni di beneficiari”.

Dall’Ocse secondo monito in pochi giorni

Il Rapporto Welfare Italia segue, a distanza di pochi giorni, il monito dell’Ocse all’Italia sull’uscita dal lavoro dei suoi cittadini e sulla necessità di cancellare il sistema ‘Quota 100’, perché starebbe portando l’Italia “indietro rispetto alle recenti riforme”: nella scheda sull’Italia del Rapporto “Pensions at a Glance“, l’organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico sostiene che nel nostro sistema pensionistico la priorità dovrebbe essere quella di “aumentare l’età effettiva di ritiro dal lavoro”, considerando che ad oggi è “solo” di 62 anni, quindi di due anni circa inferiore a quella media Ocse e di cinque più bassa rispetto all’età legale di vecchiaia (posizionata a 67 anni).

Inoltre, l’Ocse rileva che l’Italia spende per il sistema pensionistico il 16% del Pil, il secondo livello più alto nell’area Ocse.

Nessun riferimento, però, viene fatto alle professioni usuranti: quelle nelle quali si vorrebbe far rientrare anche la docenza, come di recente chiesto dal dottor Vittorio Lodolo d’Oria con un appello al ministro Lorenzo Fioramonti per dire basta alle maestre-nonne.