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In pensione a 67 anni: difficile per tutti, estremamente arduo per chi insegna

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Come stanno i docenti vicini alla pensione? Come si sentono nel vivere la situazione attuale, in una Scuola, in un Paese, in un mondo diversi da tutto quanto è esistito prima d’ora?

Nei prossimi anni andranno in pensione gli ultimi docenti della generazione baby boomer, ossia quelli nati tra il 1960 e il 1964. Tutti costoro, se la legislazione rimarrà quella attuale, verranno pensionati tra il 2027 e il 2031, alla soglia dei 70 anni di età, e dopo quasi 43 anni di servizio. Per loro è dunque già tempo di bilanci.

Quando chi insegnava non era ricco, ma fondamentalmente sereno e rispettato

Prima delle “riforme pensionistiche” degli ultimi 30 anni, alla loro età si era già tranquillamente in pensione da un pezzo, e con una retribuzione che consentiva un’esistenza certo non ricca, ma dignitosa e serena fino alla morte. La pensione, inoltre, giungeva ai docenti dopo una pluridecennale vita lavorativa decorosa, rispettata e socialmente considerata.

Dal 1992, tra tutti i problemi che minavano la stabilità economica del nostro Paese (mafie, corruzione, evasione fiscale, bassa produttività, calo demografico, debito pubblico elevato, disoccupazione, mancanza d’investimenti, scarsa innovazione et cetĕra) fu scelto di affrontare con determinazione la spesa pensionistica.

Docenti italiani: i meno pagati d’Europa, che vanno in pensione più tardi degli altri

Si susseguirono dunque le “riforme”: quella Amato nel 1992; quella Dini nel 1995; quella Maroni nel 2005; quella Prodi (2007-2009); quella Sacconi nel 2010; quella Fornero nel 2011. Tutte (contro)riforme nella medesima direzione, che ha portato alla situazione attuale. Ed ecco che i lavoratori italiani sono in Europa quelli che vanno in pensione con meno soldi e più tardi (a 67 anni), insieme a norvegesi, islandesi, olandesi, greci e danesi, che però abitano Paesi meno ricchi del nostro. Nel resto d’Europa, in pensione si va prima di noi (in Lituania addirittura a 59 anni).

Relazioni difficili e incomprensioni con alunni di mezzo secolo più giovani

Per gli insegnanti però, oltre alla fatica di dover lavorare in età anziana tra gli acciacchi e la salute che se ne va, c’è pure un’altra circostanza che aggrava il quadro generale: la difficoltà di entrare in relazione con le più giovani generazioni di studenti, affrontando un’incomunicabilità ben peggiore di quella che mezzo secolo fa poteva esistere tra un professore di 59 anni ed uno studente di 14. Peggiore per due motivi: il primo dei quali strettamente anagrafico. Nel primo anno della scuola secondaria di primo grado un docente di 66 anni ha di fronte ragazzi che possono esser di 52 anni più giovani: l’insegnante per loro non è più come un padre o una madre, ma come un nonno o una nonna. Ciò sarebbe stato già assurdo nel 1975, quando il divario culturale tra le generazioni non era abissale come l’attuale.

Tra alunni trasformati e genitori metamorfosati

Non crediamo poi di dover spiegare ai nostri lettori in cosa sono diverse le generazioni studentesche attuali rispetto alle precedenti. Chi ci legge lo sa bene, per esperienza d’insegnamento o di genitorialità. Mezzo secolo fa (ma persino 20 anni fa) non esisteva la dipendenza da smartphone, che oggi porta addirittura alcuni giovani a finire in ospedale con autentiche crisi d’astinenza in tutto simili a quelle dei tossicomani.

Oggi i prof anziani gestiscono adolescenti iperprotetti dai loro iperprotettivi genitori; i quali (spesso più adolescenti dei figli), scrivono immediatamente al dirigente del malvagio prof che si sia permesso di infliggere un “sei meno” alla loro povera creatura maltrattata. In conseguenza di questo clima, molti studenti — per fortuna non tutti — non mostrano rispetto né considerazione per il lavoro dell’anziano docente, ma lo considerano solo un ostacolo da aggirare. Il docente cessa di essere una persona, per lasciare il posto ad un “coso” da beffare, al fine di ottenere bei voti senza fatica.

Lavorare 43 anni in un ambiente psichicamente difficile

Che questo quadro non sia esagerato, ma realistico, lo dicono gli infiniti episodi — tanto gravi da diventare notizie — di angherie, prepotenze, vituperi e violenze: episodi che fin troppi docenti oggi son costretti a sopportare per mesi, anni, decenni.

Come può sentirsi sul lavoro un docente anziano, costretto a impiegare tutte le residue energie vitali per sopravvivere psichicamente a un ambiente lavorativo così mutato rispetto agli inizi della sua carriera? Eppure lo stesso docente aveva iniziato a insegnare perché per lui (o lei) quella, proprio e solo quella, era la professione più bella del mondo, che permetteva di far crescere i giovanissimi attraverso il proprio lavoro, contribuendo in modo tangibile al progresso della società. Un lavoro, peraltro, più stimato e meglio pagato di quanto non sia oggi.

È in perfetta salute un Paese che richiede ai docenti virtù eroiche?

I bisogni individuali del docente non contano, non esistono. Il suo bisogno di un ambiente amichevole e rilassato, cui qualunque lavoratore ha diritto, non viene minimamente preso in considerazione. Contano solo i risultati, la burocrazia della scuola-azienda, le sue sigle bizzarre e i suoi termini anglofoni profumati di modernità. Conta ciò che vuole il dirigente, quel che pensano i genitori/utenti/clienti; contano i voti dati ai poveri fanciulli/martiri, il numero degli iscritti per il prossimo anno, i corsi di aggiornamento su “innovazioni tecnologiche” e intelligenza artificiale, i PDP, i corsi di recupero e potenziamento, le prove INVALSI, i risultati delle prove INVALSI, la posizione del proprio istituto nelle graduatorie INVALSI, e via impazzendo.

Non c’è che dire: i docenti che a 65 anni ancora insegnano sono veri eroi. «Sventurata la terra che ha bisogno di eroi», scrisse Bertolt Brecht. Ancor più sventurato il Paese che rende la vita impossibile alle persone serie ed oneste, trasformandole in eroi, e non ringraziandole nemmeno.