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La protesta esistenziale dei giovani

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Ogni volta che mi trovo dinanzi a cortei che sfilano contro la guerra o il dissesto climatico, penso che, a prescindere dagli schieramenti, essi hanno qualcosa di più solenne di una protesta sociale, basata sui diritti civili. Qui, siamo di fronte ad una protesta esistenziale, rivolta a chi ci preclude il futuro. Ed i primi a sentirsi defraudati sono coloro che hanno tutta una vita dinanzi: i giovani.
Nella mia vita d’insegnante, ho conosciuto altri tipi di proteste. Anch’esse significative. Pensate allo studente che sbadiglia quando tu inizi a trattare un argomento, col tono di un dovere di routine, in modo distaccato e sistematico. E pensate allo stesso studente che si attiva mentalmente, come d’incanto, quando affronti un tema che lo coinvolge nel profondo. Ho conosciuto ragazzi che raggiungevano la scuola viaggiando per due ore, ma si sentivano inadeguati alle aspettative ambiziose dei genitori. Che facevano? Si addormentavano sul banco, come per autoipnosi, pronti però a svegliarsi se cambiavo argomento.
Non dimentichiamo che i giovani possiedono una straordinaria capacità di avvertire le lacune latenti della realtà sociale e sono i primi a percepire il malessere esistenziale, il punto di rottura di un sistema di cose. Ecco, io ritengo che quello sbadiglio, quello sprofondare nell’ipnosi, sia, a sua volta, una protesta esistenziale. Una reazione silenziosa che attende di essere decodificata.
Ma come si fa ad iniziare a freddo una lezione, una conferenza, una predica … senza prima guardare negli occhi chi ti sta dinanzi. Senza chiedersi se lo stato d’animo di chi ti ascolta è abbastanza armonico per seguire una lezione lontana mille miglia dalla sua realtà esperienziale. Senza cercare di partire da una domanda problematica, provocatoria, da una frase emblematica che metta in moto la mente. Senza far decollare prima la dimensione emotiva da cui dipende quella cognitiva?
 Con questo non voglio dire che occorre fare conversazione anziché svolgere gli argomenti specifici della materia. Sostengo, però, che un professore veramente sensibile alle esigenze umane sa cogliere le occasioni favorevoli per dilatare lo spazio mentale dai programmi ai fondamenti, dal sapere al senso delle cose.
 Di fronte alla realtà, l’uomo di scienza si chiede: ‘Perché e come avviene questa cosa?’. L’insegnante, a sua volta, senza trascurare la fondamentale domanda della scienza, basata sul ‘perché’ e sul ‘come’ specifico di un fenomeno, è tenuto ad aggiungere una domanda di significato: ‘Che senso ha questa cosa, questa idea, questa esperienza, questo errore?’. Giungendo, se ne è capace, anche alla prima delle domande metafisiche: ‘Che senso ha tutto questo?’.
Ci sono domande, infatti, che hanno il potere di coinvolgerci di persona, di costringerci a manifestare il nostro animo. E sono queste: Come ti senti in questo momento? Sei contento della vita che conduci? Che senso ha la tua vita? Cosa ti rende felice e cosa ti rende infelice? Quali sono le cose che ti fanno più paura? Quali valori sono per te fondamentali e, tra questi, qual è quello unificante?
 Certamente. L’educatore non è uno psicologo. Non cura le malattie della mente ma cerca di dare un senso alla vita. E la vita non è una malattia – per fortuna – ma un percorso di consapevolezza. Per cui, chi vive un disturbo emotivo va dallo psicologo, mentre chi ha problemi esistenziali o è alla ricerca di percorsi sapienziali, necessita di sistemi organici di risposta. Ha bisogno, cioè, di chi gli fornisca parametri razionali, etici, valoriali, per affrontare le vita. In questo caso, nessuno può aiutarlo meglio del letterato, dell’artista, del filosofo, del teologo, dell’insegnante, oppure dello scienziato aperto alle domande di senso. Di chiunque sia disposto a valorizzare chi gli sta dinanzi ed abbia appreso dalla vita a coltivare la saggezza.

Luciano Verdone