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La scuola che non valuta non è una buona scuola

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La riforma della Buona scuola, scrive LaVoce.it, ha implicitamente introdotto uno scambio.

L’incremento degli insegnanti, in cambio di una valutazione del loro merito, accompagnata dall’adozione di gradi di autonomia nella scelta dei docenti attribuiti ai dirigenti scolastici, a loro volta oggetto di valutazione nella loro capacità organizzativa e valutativa.

Senonchè si sono generate frizioni e problemi, facendo sì che quella che poteva essere una grande riforma è oggi percepita come una (fallita) operazione di allargamento del consenso elettorale.

Tre sarebbero secondo La Voce gli aspetti particolarmente problematici.

Il primo è che non può esservi una scuola didatticamente efficace senza una responsabilizzazione di chi vi opera.

La scuola italiana ha invece perso la propria capacità di verificare l’efficacia della didattica e di segnalarla in modo credibile al mondo esterno. Non disponiamo infatti di una valutazione comparabile a livello nazionale degli esiti degli studenti e i test standardizzati hanno dei limiti, ma è indubbia la necessità di un metro comune e gli stessi insegnanti che vi si oppongono avrebbero dovuto proporre misure alternative di verifica, per esempio la correzione esterna degli elaborati dei propri studenti. Senza verifica esterna, è opportunisticamente più comodo utilizzare voti gonfiati (grade inflation) che regalano sufficienze e trasformano i mediocri in eccellenti.

Manca altresì, scrive La Voce,  una seria valutazione degli insegnanti.

Secondo i dati resi pubblici, i comitati hanno mediamente premiato circa un insegnante su tre. Sembra quindi che nelle scuole vi sia una diffusa percezione che non tutti gli insegnanti hanno la stessa capacità didattica. Piuttosto che distribuire premi monetari (nell’ordine di 600 euro medi lordi annui) in base a criteri molto variabili, sarebbe stato forse preferibile cercare di arrivare ad una visione condivisa di cosa sia la capacità didattica e su come misurarla.

 

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Tra le informazioni disponibili si sarebbero potuti utilizzare i risultati della didattica, il gradimento dei genitori e certamente anche la valutazione dei dirigenti. In questo modo si è invece saltati oltre l’ostacolo, ma questo non ha fatto fare passi in avanti al problema centrale della valutazione.

Il terzo e ultimo aspetto è quello della valutazione dei dirigenti scolastici.

I comitati di regionali per la loro valutazione sono in corso di costituzione. Ma contraddicendo uno dei principi basilari della valutazione, sono composti da dirigenti in servizio, che si troveranno a giudicare i propri pari, essendo nel contempo a loro volta oggetto di valutazione.

Uno scelta simile sembra ignorare il rischio di comportamenti consociativi, ivi incluso l’implicito rafforzamento dei sindacati di categoria.

Se si vuole rendere credibile una catena valutativa, propone La Voce.it, occorre partire dall’alto, dalla valutazione dei vertici. Altrimenti perché un insegnante dovrebbe accettare il giudizio del suo dirigente, quando sa benissimo che quest’ultimo è esentato da ogni forma di verifica seria del proprio operato? E perché uno studente dovrebbe ritenere credibile la votazione di insegnanti che non vengono mai valutati?