
Nelle recenti riflessioni che animano il dibattito culturale e sociale, emerge con crescente forza un interrogativo cruciale che tocca direttamente il cuore del nostro operato: quale ruolo deve assumere la scuola nell’attuale contesto di vertiginosa trasformazione? Come può ogni docente, ogni educatore mettere in pratica quanto sosteneva Don Bosco? Il Professor Vito Mancuso, con le sue acute osservazioni, ci spinge a confrontarci con una criticità fondamentale, che si configura come un vero e proprio paradosso della modernità: l’apparente disgiunzione tra l’enorme progresso in termini di conoscenza tecnica e scientifica e una percepibile regressione nella capacità di orientarsi nella sfera emotiva, etica e relazionale.
Il nucleo della questione risiede in quella che potremmo definire la “disfunzionalità affettiva del sapere”.
Abbiamo formato generazioni di studenti capaci di navigare la complessità dei dati, di padroneggiare strumenti tecnologici avanzatissimi, di eccellere in ambiti specialistici. Abbiamo “sfornato” individui efficienti, ma non necessariamente umani. Non possiamo ignorare le crescenti manifestazioni di disagio, di solitudine nell’iperconnessione, di difficoltà nella gestione delle emozioni e nella costruzione di relazioni autentiche e significative. È come se avessimo consegnato loro una mappa dettagliatissima del territorio, dimenticando di fornirgli la bussola interna, quella capacità di “sentire” che rende il viaggio non solo efficace, ma anche profondamente umano e significativo.
Questa critica non è una demonizzazione del sapere logico-razionale, che rimane un pilastro insostituibile. Piuttosto, è un monito contro la sua “sterilizzazione”, la sua applicazione indiscriminata a ogni ambito dell’esistenza. L’ossessione per il misurabile, il quantificabile, ciò che può essere oggettivato e categorizzato, rischia di impoverire drasticamente l’esperienza umana, riducendola a una sequenza di dati e obiettivi. Le dimensioni più sottili e vitali – la creatività, l’empatia, il pensiero simbolico, la ricerca di senso, la stessa capacità di provare meraviglia – rischiano di essere svalutate o addirittura escluse dal percorso formativo, perché non facilmente traducibili in metriche o verificabili con test standardizzati.
Il risultato è un’anima che si atrofizza, privata del nutrimento essenziale che solo la dimensione meta-razionale può offrire. In questo scenario, il ruolo della scuola diventa ancor più determinante. La vera criticità, infatti, non risiede primariamente nella mancanza di risorse, bensì nella sua stessa impostazione filosofica. Se la scuola si riduce a una “catena di montaggio” di competenze, orientata quasi esclusivamente a preparare individui “spendibili” sul mercato del lavoro, rischiamo di tradire la sua vocazione più alta: quella di essere un luogo di crescita integrale, dove si “tira fuori” – e-ducere – il potenziale unico di ogni studente.
Una “burocratizzazione dell’anima” che standardizza il percorso, privilegiando l’accumulo di nozioni sulla formazione del carattere, sulla coltivazione delle virtù cardinali (giustizia, saggezza, temperanza) e sulla capacità di discernimento etico. È imperativo che la scuola si riappropri della sua missione di “educazione del cuore”. Non si tratta di aggiungere semplicemente un’ora di “educazione civica” o di “educazione affettiva” come fossero materie aggiuntive. Si tratta di infondere una diversa consapevolezza in ogni disciplina, in ogni interazione, in ogni progetto.
Significa educare alla relazione, al rispetto delle diversità, alla capacità di ascolto attivo, alla gestione costruttiva del conflitto, al riconoscimento della bellezza nella complessità e nella fragilità. Significa promuovere un pensiero critico che non sia solo logico-analitico, ma anche etico-esistenziale, capace di interrogare il senso delle cose. Investire nella scuola non può significare solo incrementare le dotazioni tecnologiche o il numero di insegnanti. Vuole dire, soprattutto, riflettere profondamente su cosa e come stiamo educando. Dobbiamo formare non solo menti brillanti, ma anche cuori aperti, capaci di empatia, di resilienza, di visione.
Solo così potremo preparare i nostri studenti non solo ad affrontare le sfide di un mondo in continua evoluzione, ma a essere protagonisti attivi e consapevoli di una società più giusta, più umana e più solidale. È una sfida complessa, che richiede coraggio, visione e un impegno collettivo. Ma è una sfida irrinunciabile per la scuola che vuole essere davvero il motore di un futuro non solo più efficiente, ma profondamente più umano.
Monica Piolanti