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Lettera aperta alla senatrice Bianca Granato

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È la prima volta in vita mia che scrivo ad un quotidiano e che mi espongo pubblicamente al di fuori dei miei consueti spazi lavorativi. Di questi tempi, in cui la società tardo-moderna è ossessionata dall’isteria della notorietà ed in cui una profonda distorsione del rapporto fra pubblico e privato porta milioni di persone a percepire sé stesse come una merce da esporre in vetrina “per un pugno di like”, io credo che l’anonimato assurga a virtù e che sia oggi più valido che mai il principio epicureo del vivere nascosto.

Tuttavia, anche la tranquillità dell’animo e l’imperturbabilità filosofica più tenaci possono comunque trovare un punto di rottura.

Capita talvolta che l’indignazione per le parole o i gesti di altri uomini divenga talmente lacerante per cui non si può più tacere e si comprende che è giunto il momento di far sentire anche la propria voce in un contesto pubblico adeguato. Da otto anni sono un precario della scuola italiana e il mio punto di rottura è giunto lo scorso giovedì nel leggere le parole con cui la Senatrice Bianca Laura Granato ha insultato ed offeso la dignità di migliaia di cittadini che sono nelle mie stesse condizioni lavorative e le loro famiglie. Per questo vorrei contribuire in qualche modo al dibattito che da anni agita il mondo della scuola cercando di chiarire un paio di questioni. Nel post della senatrice si legge che i precari non possono sentirsi insegnanti a pieno titolo, ma sono solo «soggetti che si definiscono insegnanti», che la scuola non può trasformarsi in un «gigantesco bacino occupazionale dove si confermerebbe il detto popolare “chi non sa, insegna”», e che non è ammissibile che un docente «che sia veramente tale escogiti ogni stratagemma utile pur di evitare una normale procedura concorsuale».

Al di là del fatto che da una Senatrice della Repubblica italiana mi sarei aspettato una citazione, che ne so, di Platone o Aristotele, di Dewey o Hegel, e non il riferimento ad un detto popolare che nasconde un profondo pregiudizio sulla natura dell’insegnamento e della sua funzione, il contenuto sostanziale delle sue offese verte sul principio del merito che ha effettivamente costituito uno dei pilastri teorici della battaglia populista del Movimento 5 Stelle. Innanzitutto, vorrei ricordare che la scuola è già un enorme centro di collocamento, e non certo per colpa dei precari. Dalla chiusura delle SISS, le vecchie scuole di abilitazione, cioè dal 2009, sono stati banditi solo due percorsi abilitanti e qualche sporadico concorso a cui potevano accedere solo gli abilitati, mentre nessuno dei tanti governi che si sono succeduti è stato in grado di creare un percorso organico e stabile per l’accesso all’insegnamento, tanto che ancora oggi, in Italia, non si comprende bene come si possa diventare un docente. Ogni anno, infatti, fra settembre e ottobre, tutti gli istituti italiani assegnano sempre più cattedre vacanti attingendo dalla Terza fascia, e migliaia di sedicenti insegnanti entrano nelle aule cercando di essere la “miglior versione di sé stessi”, come direbbe Aristotele, salvo poi venire puntualmente licenziati ogni 30 di giugno alla scadenza naturale del proprio contratto. Che tu abbia pianto assieme ai tuoi studenti sapendo che non li rivedrai o che sia riuscito a fargli vedere la storia sotto una luce che non credevano possibile, o che, al contrario, te ne sia andato senza lasciare alcuna traccia, né aver contribuito in alcun modo alla loro crescita intellettuale, non cambia nulla, non esiste alcuna valutazione del merito ed ogni 30 giugno dovrai tornare a casa da disoccupato iniziando a sperare nella chiamata di settembre.

In secondo luogo, le rivendicazioni dei precari non sono dirette a sfruttare la situazione di emergenza affinché si dichiari un “liberi tutti alle assunzioni”, ma sollevano semmai una serie di legittime perplessità sulle modalità di valutazione del merito che verranno applicate soprattutto con il concorso straordinario che dovrebbe essere bandito entro il 30 aprile. Tra l’altro, è stato lo stesso Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione ad evidenziare una serie di criticità sulla procedura concorsuale, non solo perché non valorizzerebbe appieno «l’esperienza professionale maturata» dei candidati, ma perché risulterebbe anche particolarmente difficile organizzare le prove in tempo per il nuovo anno scolastico nel pieno della «drammatica situazione che sta attraversando il Paese per effetto dell’epidemia del “Covid-19”». Capire chi sia un bravo insegnante, infatti, è una questione particolarmente complessa che sfugge alle logiche dell’efficienza. L’insegnante non è un manager il cui valore può essere misurato con il contribuito che fornisce il suo lavoro al profitto dell’azienda o all’aumento delle vendite e per quanto abbia ragione Umberto Galimberti nel sostenere che i docenti dovrebbero essere «motivati e carismatici», perché l’apprendimento passa prima di tutto per un processo di «fascinazione», il fascino non può essere oggetto di un concorso e purtroppo non è possibile assumere Leonardo Di Caprio in ogni classe italiana. Come me, oltretutto, un buon numero di questi precari della scuola un concorso serio l’hanno già sostenuto, facendosi ammettere e poi conseguendo un Dottorato di Ricerca per cui hanno lavorato per ben tre anni come ricercatori ed assistenti nelle Università Italiane. Da anni, pur con opinioni divergenti, si dibatte sull’opportunità di rendere il titolo di Dottorato abilitante all’insegnamento nelle scuole superiori come già avviene nella maggior parte dei paesi avanzati del mondo, e come l’Europa avrebbe consigliato di fare all’Italia. In tal modo, non solo si riuscirebbe a portare nelle aule italiane un corpo di docenti giovani e motivati, che contribuirebbero ad avvicinare la scuola superiore italiana all’Università, invece che alle scuole elementari come avviene adesso, ma si porrebbe anche un argine al fenomeno della “fuga dei cervelli”, dando dignità ed uno stipendio a centinaia di ricercatori italiani che per la mancanza di opportunità sono costretti a cercare fortuna all’estero.

Quello che non è accettabile nelle parole della Senatrice Granato o nell’ostinazione della Ministra Azzolina nel voler proseguire con questa formula del concorso straordinario è la pubblicistica politica con la quale sostengono che rispondere a 80 domande in 80 minuti garantirà agli studenti italiani di poter fruire di un bravo insegnante. Questa metodologia di stabilimento del merito, al contrario, non fa altro che rispondere, ancora una volta, a quella logica perversa che ha portato l’istruzione italiana ad una vera e propria «catastrofe», come la definisce lucidamente sempre Galimberti, dovuta al fatto che si pretende di «misurare “scientificamente” quanto si insegna e quanto si apprende». Anche se ancora, non avendo il ruolo, effettivamente posso solo definirmi un insegnante, non sarà l’aver risposto correttamente al numero di quesiti necessario che farà di me un buon docente, mi dirà al massimo se ho delle discrete possibilità di vincere due euro a Chi vuol essere milionario. Il motivo per cui continuerò a sostenere a testa alta di essere un insegnante sta nelle parole e nelle lettere che mi hanno scritto i ragazzi con cui ho avuto il privilegio di lavorare e che resteranno per sempre nella mia memoria e nel mio cuore. Per cui, rispondo alla Senatrice Granato rendendo pubblico quello che avrebbe dovuto restare privato.

«Grazie per i consigli, le chiacchierate, i sentieri che mi hai aiutato a intraprendere, per aver condiviso le scoperte, aver nutrito la mia curiosità ed essermi di ispirazione».

«Buongiorno prof., ci tenevo a ringraziarla perché durante quest’anno è riuscito ad insegnarmi che seguire le proprie passioni può fare la differenza».

«La ringrazio per tutto, mi ha fatto aprire gli occhi e mi ha fatto scoprire, mi ha trasmesso la sua conoscenza, la sua voglia d’insegnare e la sua curiosità».

«Lei è l’unico professore che fin ora mi ha fatto cambiare, si perché lei mi ha fatto crescere, cambiare il modo di pensare, di vedere le cose da un altro punto di vista, mi ha dato risposte a domande che pensavo fossero impossibili».

«Niente… volevo anche dirle che l ‘anno scorso le uniche ore in cui stavo bene e mi divertivo erano le sue, mi sentivo a mio agio cosa che in tutta la mia vita scolastica non mi era mai capitato, ero sempre in ansia che i professori mi credessero stupida o poco capace  mi sentivo giudicata mi sentivo solo un numero di valutazione solo un voto, lei è stato l’unico con cui io mi sono sentita una persona vista per come ero non per cosa sapevo fare, magari a lei sembra di non aver fatto niente, invece in me ha fatto una gran differenza. Grazie mille prof., grazie davvero».

Massimiliano Capra Casadio