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Merito e meritocrazia, una matassa ingarbugliata, che il neo ministro Valditara dovrà sbrogliare, sempre che il merito lo sostenga. Nostra intervista a M. Maviglia

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A Mario Maviglia abbiamo posto qualche domanda sull’argomento del giorno e cioè sul cambio di nome del Minsitero che diventa il “Ministero dell’Istruzione e del Merito”

Lei è un profondo conoscitore della “macchina” ministeriale: è stato dirigente tecnico per tanti anni e nell’ultimo periodo anche dirigente dell’Ufficio scolastico provinciale di Brescia.
Cosa ha pensato quando ha sentito che il ministero si chiamerà “dell’Istruzione e del Merito” ?

La prima cosa che mi è venuta in mente è molto banale, direi anche un po’ venale: chissà quanto costerà alla finanza pubblica (ossia a tutti noi) la nuova denominazione di numerosi Ministeri voluta dal nuovo Governo?
Occorre infatti cambiare l’intestazione delle carte (anche se buona parte della comunicazione oggi avviene on line), i timbri non più in regola, le targhette ai vari uffici. E questo per tutti i Ministeri coinvolti e per le loro diramazioni territoriali. Gli istituti scolastici, ad esempio, dovranno subito darsi da fare per aggiungere “e del Merito” subito dopo “Ministero dell’Istruzione. E dire che molte di loro avevano da poco finito di aggiornare la vecchia denominazione di “Ministero dell’Istruzione e della Ricerca”. (Ma se fate un giro in rete, ci sono ancora istituzioni scolastiche che utilizzano ancora la vecchia denominazione di “Ministero della Pubblica Istruzione”. Nostalgici…).

Ma secondo lei perché il Governo ha deciso questo cambio?

Può darsi (ma è alquanto improbabile) che gli inventori del nuovo nome abbiamo pensato all’art. 34 della nostra Costituzione, dove, in riferimento alla scuola aperta a tutti, viene citato il merito (“I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi.”). Non sappiamo per quale motivo, ma ci sembra che nel caso che stiamo trattando si faccia riferimento ad altri paradigmi valoriali (chiamiamoli così).

Cioè?

Voglio essere sfacciatamente esplicito e politicamente scorretto. Da molti anni in Italia (da sempre?) quando si parla di “merito” significa che si vogliono “sistemare” amici o amici degli amici (o familiari o parenti vicini e lontani o affini, con tutta la filiera genealogica del caso) in posti chiave o comunque ambiti, utilizzando (qui sta l’ingegnosità del paradigma) la parola magica del “merito”.

Non le pare di essere un po’ troppo severo nel suo giudizio?

Direi proprio di no, perché è quello che succede quasi ordinariamente in ambito universitario, o nella nomina dei dirigenti pubblici ex art. 19 commi 5bis e 6 del DLvo 165/2001; o quello che succede quando si confezionano bandi ad hoc per la nomina di esperti/consulenti/formatori presso le pubbliche amministrazioni. Un ulteriore esempio è la cosiddetta fuga di cervelli dall’Italia, ossia quei talenti che non hanno alcuna possibilità di vedere riconosciute le loro competenze in quanto non adeguatamente “imparentati” con lobby o gruppi di potere.

Insomma per lei la meritocrazia vera non esiste…

Come funziona il meccanismo “meritocratico” in versione italica? È abbastanza semplice e tutto molto “regolare”: PRIMA si decide chi deve occupare quel determinato posto, e SUCCESSIVAMENTE viene confezionata la procedura valutativa o concorsuale in modo che non vi siano sbavature tra il dichiarato e l’agito (diciamo così). Insomma, una sorta di vestito cucito su misura del designato. Forse è per questo che quando sentiamo parlare di merito avvertiamo un certo fastidio, una sorta di orticaria comportamentale.
Paradossalmente, questa traduzione nostrana della meritocrazia (ma probabilmente non è solo un problema italiano) porta a quella che Alain Deneault chiama “mediocrazia”, ossia il trionfo dei mediocri.

La vedo ben preparato anche sul piano teorico. Allora ci spieghi: cosa dice la ricerca internazionale sull’argomento?

Paradossalmente le critiche più spietate alla “meritocrazia” provengono proprio da alcuni dei Paesi più industrializzati al mondo. Il filosofo politico americano, Michael J. Sandel, dell’Università di Harvard, vi ha dedicato recentemente un libro, tradotto anche in italiano, in cui sostiene che il modello del successo individuale basato sul talento crea un meccanismo perverso in quanto stigmatizza e marginalizza coloro che non ce la fanno.

E quindi ?

Quindi accade che siccome il successo è strettamente correlato al reddito, si tende a svilire l’importanza di alcune professioni, pure fondamentali per la tenuta e lo sviluppo della società, in quanto non abbastanza remunerative (è il caso dei docenti o degli infermieri).
Un’altra perversa conseguenza è che siccome la sottesa convinzione che il successo sia da ascrivere alle proprie personali capacità di affermazione (secondo la logica “ognuno è artefice del proprio destino”), allora le politiche di sostegno verso i deboli o verso coloro che non raggiungono risultati ritenuti soddisfacenti sono inutili.
Il risultato finale è che, secondo Sandel, il trionfo della meritocrazia comporta come conseguenza una società meno equa, peraltro con fenomeni di rifiuto verso quelle minoranze che abbisognano di assistenza e di sostegni (immigrati, disabili, disoccupati).

Mi par di capire che il problema è molto complesso, non basta dire “largo ai meritevoli”, le variabili in gioco sono tante, forse troppe…

E’ così, ma io credo che il nuovo Governo ritenga che qualcosa si può e si deve fare ed è per questo che al nuovo Ministro Valditara è stato dato il compito di sbrogliare questa matassa. Se il merito lo sosterrà.