
E’ bastata la protesta di qualche studente al colloquio dell’esame di Stato per far emergere un problema vecchio ma mai adeguatamente affrontato da un punto di vista pedagogico: la valutazione conclusiva del percorso di studi secondari.
Senza sapere nulla di pedagogia e di docimologia gli studenti che hanno deciso di fare “scena muta” all’esame sono riusciti a far discutere esperti e meno esperti su un tema che meriterebbe ben altra attenzione.
Ne parliamo con Enrico Bottero, pedagogista e ricercatore, studioso di pedagogia Freinet (di recente è uscito anche un suo volume dal titolo “Célestin Freinet. Storia e attualità di una pedagogia”).
Allora che ne dice di questa “protesta”?
C’è un dato interessante: la protesta, anche se condotta da pochissimi studenti, ha avuto il merito di render nota all’opinione pubblica una questione fondamentale: che cosa vuol dire valutare? Diciamolo subito: è importante per i ragazzi la presenza di riti di passaggio. Se non riusciamo a condividerli come società i ragazzi se ne faranno altri (ed è quello che già accade).
Quindi lei non è contrario all’esame di maturità?
No, non sono contrario a priori, ma dobbiamo chiederci quale esame vogliamo. Io credo che dovrebbe essere la conclusione di un percorso personale (ma con la collaborazione del gruppo) di ricerca e di studio, una conclusione suggellata da un oggetto e da un momento ufficiale che sancisca il riconoscimento del percorso svolto.
E’ un’idea interessante, ma non semplice da realizzare….
Infatti. Il punto è che un percorso personalizzato di apprendimento richiede una particolare organizzazione didattica, oggi in gran parte assente nelle scuole secondarie italiane, ancora legate all’insegnamento simultaneo e collettivo (e naturalmente al voto come sistema di valutazione).
In effetti, gli studenti che hanno protestato, quasi certamente a digiuno di studi pedagogici, hanno centrato la questione…
Direi di sì: i ragazzi contestatori hanno intuito il problema quando hanno motivato la loro scelta denunciando la competitività e la mancanza di empatia. Hanno ricordato alla scuola che cosa dovrebbe fare: non metterli in competizione tra loro ma agire sulla motivazione interna e sulla cooperazione di gruppo. Ora spetterebbe alla scuola cominciare a riflettere su come costruire un’organizzazione didattica per l’apprendimento di tutti, che valorizzi sia l’emancipazione individuale che il senso del gruppo in modo cooperativo.
Bene, e cosa ha a che fare tutto questo con l’esame finale?
Io continuo a pensare che la scelta migliore per questi momenti di passaggio sia la valutazione per “unità di valore”, cioè la produzione di un “capolavoro” frutto di un personale lavoro di ricerca. Lo avevano intuito sia Baden Powell che Célestin Freinet.
Insomma, basterebbe rileggere con attenzione le migliori esperienze pedagogiche del secolo scorso per farsi venire qualche idea…
Proprio così. E invece il Ministro non si è neppure fermato a pensare al problema: ha scelto la repressione invece dell’educazione.




