
In Italia, per vivere serenamente il passaggio dai banchi al mondo del lavoro, serve la “dote”. E avere un titolo di studio più alto, a differenza di quanto si possa pensare, non garantisce di trovare il lavoro perfetto, anzi. È quanto emerge dall’ultimo rapporto dell’Inapp sulla transizione scuola-lavoro, realizzato su un campione di oltre 45mila individui di età compresa fra 18 e 74 anni. Obiettivo, capire “non solo quali sono i principali nodi della transizione scuola-lavoro ma anche quali fattori individuali, di contesto e soggettivi entrano in gioco in questo delicato passaggio”.
L’importanza della “dote” familiare
Questi fattori pesano, e parecchio. Il termine “dote” può suonare ottocentesco, ma è proprio quello utilizzato dai tecnici dell’Istituto Analisi delle Politiche Pubbliche per descrivere “la ricchezza culturale, economica e relazionale della famiglia di origine”, da incrociare con “le informazioni su titolo di studio e carriere professionali di madre e padre”. Non conta solo il denaro, insomma, ma anche le relazioni, le amicizie, il potere, che possono rendere meno traumatico il passaggio dalla scuola al lavoro, limitando parecchio le difficoltà dei più giovani a “inserirsi” nel nuovo contesto.
Il rapporto tra povertà e soddisfazione
Basti pensare alla carenza di opportunità lavorative. A livello generale, “il 24,7% dei giovani ne sottolinea il peso”, ma per coloro che vengono da una famiglia con un background “debole” il problema “si sente di più e il valore sale al 34,1%”, un aumento di oltre dieci punti percentuali. Anche la percezione dell’impiego – quando si riesce a trovarlo – è ben diversa. Per coloro che hanno un background “elevato”, infatti, “l’idea che il lavoro sia un modo per realizzarsi raggiunge il 30%, contro il 18% riferito ha chi proviene da famiglie con una “dote” inferiore”.
Il tema del titolo di studio (con soprese)
Il principio costituzionale per il quale “tutti i cittadini sono eguali davanti alla legge”, insomma, è ampiamente disatteso. La diseguaglianza è legata anche ai titoli di studio. In generale, “i giovani con licenza media, specie nella fascia 25-29 anni, rappresentano il gruppo più vulnerabile”. Quasi la metà di essi “non riesce a trovare servizi di orientamento adeguati (44,3%), più di due su cinque non hanno idee chiare sui lavori possibili (42,8%) e oltre un terzo non trova offerte di lavoro (32,9%)”. Guardando meglio i dati, però, emergono delle sorprese.
Quanto conta la capacità di adattamento
Tra i più giovani con bassa scolarizzazione, infatti, “sembra emergere una certa consapevolezza nel doversi adeguare alle proposte, seppur non soddisfacenti (18,9% vs 29,2% dei diplomati e 34,2% dei laureati)”. Ciò, fanno notare i tecnici, può portare a una maggiore possibilità di adattamento. Se da una parte “le opportunità dei diplomati sono indubbiamente maggiori rispetto a chi ha la sola licenzia media” dall’altra “il possesso di un diploma risulta debole rispetto a un soddisfacente inserimento lavorativo“. Cinque anni di scuola in più, insomma, non “cambiano” poi molto.
Giovani diplomati sempre più “disorientati”
Circa un quarto dei giovani che hanno concluso le superiori, infatti, “non trova offerte di lavoro, e per chi le trova sono per lo più inadeguate (29,2%)”. La colpa è anche dei servizi per l’impiego, che “non sono in grado di supportare adeguatamente i giovani diplomati nell’inserirsi (25,1%), lasciandoli disorientati nel prefigurarsi una carriera professionale (31,9%)”. E i giovani con titolo accademico? “Tra 18 e 24 anni hanno relativamente poche difficoltà nel trovare servizi di orientamento, ma li giudicano più degli altri inadeguati alle loro aspettative ed esigenze (42,7%)”.
Offerte “non soddisfacenti” per i laureati
Quando un impiego arriva, poi, non è detto che sia quello voluto. “Oltre un terzo del totale dei laureati (34,2%) reputa le offerte di lavoro non soddisfacenti“, si legge nel rapporto. Il giudizio, proseguono i tecnici, “è probabilmente imputabile a fenomeni di sotto inquadramento“, ma un altro fattore potrebbe essere “l’assenza di opportunità lavorative coerenti con le proprie aspettative”. Il titolo di studio superiore, insomma, non garantisce di fare il lavoro della vita. Con tutte le conseguenze del caso sulla realizzazione personale. E questo riguarda tutte le classi sociali.




