“Classi pollaio” non sono la causa principale dei cattivi risultati degli studenti

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Con la pubblicazione dei risultati delle prove Invalsi di quest’anno si è riaperto il dibattito sul tema delle classi pollaio, tema quanto mai attuale proprio in vista della ormai prossima riapertura dell’anno scolastico.
Da più parti, infatti, si sostiene che il problema principale da affrontare a settembre non sarà quelle delle vaccinazioni ma quello degli spazi e del numero di alunni per classe.

Il problema, peraltro, è stato evidenziato persino dal sottosegretario della Lega Rossano Sasso nel corso del dibattito organizzato pochi giorni fa dalla nostra testata.

E di docenti in più parla anche la ex ministra dell’Istruzione Lucia Azzolina che, sui propri canali social, dichiara: “Avere più personale scolastico significa poter ridurre il numero di alunni per classe e quindi garantire meglio il distanziamento. L’anno scorso, per la riapertura di settembre, abbiamo investito quasi 2 miliardi di euro per avere 70 mila persone in più, tra docenti e ata. Quest’anno sono stati tagliati. Perché?”

Un tema, quello delle classi pollaio, su cui il Ministro Bianchi, di recente, nell’incontro firmato Repubblica, ha risposto piccato ad uno spettatore che lo incalzava: “Non sono Harry Potter”.

Sugli effetti delle classi numerose rispetto agli esiti di apprendimento il dibattito è molto vivace.

Dal rapporto Invalsi e ancor più dalla relazione svolta in Parlamento da Roberto Ricci, responsabile delle rilevazioni emerge che non c’è al momento nessuna evidenza scientifica che i risultati siano strettamente correlati con il numero di alunni della classe.
La variabile che più di tutte incide sui risultati continua ad essere, secondo i ricercatori dell’Invalsi, il contesto socio-culturale di provenienza degli studenti.
Non a caso, infatti, nei licei, che tradizionalmente accolgono ragazzi provenienti da famiglie con maggiori possibilità non si segnalano particolari differenze nei risultati fra alunni di classi numerose e alunni di classi più ridotte.
Differenze che si osservano invece nei tecnici e nei professionali frequentati da studenti più fragili.

Ma – osserva per esempio Paolo Fasce, dirigente scolastico a Genova, esperto di disabilità e di valutazione di sistema – non va trascurato il fatto che la percentuale di studenti disabili sfiora il 10% negli istituti professionali che hanno classi mediamente più piccole (tre studenti in media di meno).

Senza dimenticare – aggiunge ancora Fasce – gli studi dell’Ocse Pisa che non sono del tutto incoraggianti in merito all’efficacia didattica nelle classi con basso numero di studenti e che mostrano modi migliori di spendere i soldi, se si ha a cuore il successo formativo degli studenti.

Considerazione perfettamente in linea con la relazione di Roberto Ricci in Parlamento
“Le esperienze migliori del Nord Europa – sottolinea Ricci – ci mostrano che è fondamentale per gli studenti fragili avere docenti aggiuntivi e attività aggiuntive”.
Una strategia fondamentale sarebbe quindi “anziché avere classi più piccole, avere risorse docenti in più per aiutare gli studenti in difficoltà, soprattutto nell’ambito dell’istruzione tecnica e professionale”.