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Docenti demotivati

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Insegno ormai da tanti anni, e svolgerei il mio lavoro con passione: mi appassionano le discipline che cerco di trasmettere, e considero il mio lavoro una vocazione: non è detto che debba esserlo, ma trasmettere con passione, entusiasmare gli alunni, essere pronti, se necessario, ad offrire un orecchio disposto ad ascoltare i piccoli e grandi problemi dell’adolescenza, che non è affatto, come si ripete, l’età più felice, oltre a fare la differenza fra un impiegato e un insegnante, rende il mio lavoro immensamente più vivo; tutto ciò non è assolutamente obbligatorio, né può venire ricompensato in termini di profitto o di carriera; è semplicemente un modo di sentire personale. Allora, perché all’inizio ho usato il condizionale? E perché tutta questa tiritera? Voglio forse mostrare il mio impegno e la mia bravura? Assolutamente no; ma svolgerei sicuramente meglio quello che già faccio, sarei più “felice e motivata”, se trovassi, all’interno della società e della scuola, maggior rispetto e considerazione per il mio lavoro, soprattutto se, come credo, non pecco di superficialità o di assenteismo, ma cerco di contribuire a formare persone adulte e responsabili. 
Ecco quale sarebbe il vero strumento di motivazione: rispetto, considerazione, stima. Non tutti i docenti sono uguali, lo so, ma la funzione, il logorio, l'”assedio” da parte di burocrazia (anche informatica), di genitori pretenziosi e assillanti, di alunni che non sanno dove stia di casa l’impegno (e non parliamo di merito), la trasformazione della Scuola in Azienda, dove conta l’Utenza, l’appiattimento su valori/risultati standard, che non gratificano nessuno, tutto questo sì, mi fa vedere concreto il rischio di burnout.
Non sono quattro soldi in più o in meno che fanno la felicità, ma è la percezione che si ha di se stessi, anche in rapporto all’opinione comune.