Home I lettori ci scrivono Essere madre: un “mestiere” difficile, osservare sì, giudicare mai

Essere madre: un “mestiere” difficile, osservare sì, giudicare mai

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No, per favore non giudicate le scelte di una madre: quello che succede nella mente di un genitore che ha perso un figlio nessuno può saperlo. E, se qualcuno crede di saperlo, sarebbe più saggio scegliere il silenzio. Nel bene e nel male. No, non giudichiamo lo sguardo perso e assente di quella madre che tutti abbiamo visto sui social, accanto a un venditore di panini, cercatore di like. Non giudichiamola. Altrimenti dovremmo farlo con tutte quelle madri che in modo diverso, sicuramente più accettabile e rispettoso, hanno gridato dai canali social il nome dei loro figli, persi per sempre. Accanto ad avvocati in doppiopetto con la gamba accavallata. La mamma di Martina ha indossato il ricordo di sua figlia in quella maglietta bianca, smarrita e inconsapevole accanto ad un vampiro social. Non giudichiamo la mamma di Martina, “ultima vittima” di un giovane tormentato dai fantasmi di una folle gelosia. Non giudichiamola perché nessuno può entrare con le proprie scarpe nella pelle di una madre avvinta e superata dal dolore.

“Essere madre” in un mondo che ruba tempo e serenità, è una sfida. Una scelta coraggiosa che a volte si arresta o si perde perché incapace di tenere testa ai rigori di un’esistenza sempre di corsa e continuamente afflitta da una quotidianità instabile e sofferente. Quel dolore di madre è incommensurabile e indefinito. E qualche volta succede che si perda nelle trappole social di chi strumentalizza e usa quel dolore. Una madre inconsapevolmente “fragile” catapultata nella massificazione stereotipata di un dolore freddo e giudicante che fuoriesce inarrestabile dall’universo social dove si rincorrono e si confondono gli echi di condanna e giudizio.

Spesso le giovani donne vittime di violenza entrano nel vortice della tempesta perfetta: la solitudine, l’inconsapevolezza, la fragilità, la paura e la vergogna. La famiglia e la scuola a volte non sono in grado di allentare la morsa di quella tempesta che si fa sempre più pericolosa e dirompente. Così com’è successo a Martina. Probabilmente oggi la famiglia, sempre più disorientata e sempre di corsa, non è più in grado di ascoltare il dolore, la solitudine e la sofferenza di chi soffre ed è fragile. Una famiglia che fa di tutto per far quadrare i conti ed arrivare a fine mese, ma troppo poco per quella “figlia fragile” che non arriverà mai a fine mese, perché qualcuno ha già deciso per lei.

Le agenzie SCUOLA/FAMIGLIA sono entrate in un loop temporale inserito nella solita retorica giudicante e fallimentare. Bisognerebbe partire da quello che la FAMIGLIA “È” e dalle risorse che la scuola “HA”. La famiglia deve partire da quello che È, cogliendo le sue fragilità, scendendo giù fino a toccarle per diventarne consapevole e farsi supportare, senza burocratizzare o prescrivere quelle fragilità. La scuola dal canto suo deve partire da ciò che “HA”: dagli insegnanti, educatori di affettività e mediatori di conoscenze, mettendo a fuoco vuoti e fragilità, sociali e familiari, supportando i giovani nelle scelte e nel discernimento.

La scuola deve attualizzare e potenziare quel bellissimo strumento educativo che è il PATTO DI CORRESPONSABILITÀ, un documento che la scuola offre alle famiglie per incoraggiare gli studenti alla consapevolezza, all’assunzione di responsabilità, al rispetto reciproco, al dialogo e alla collaborazione. Perché i giovani non hanno bisogno della solita retorica spicciola. Ma di quella mediazione socio-educativa, assertiva ed empatica, che deriva dal dialogo e dall’ascolto.

Francesca Carone