Home Attualità Garantire un futuro all’Italia e ai suoi giovani

Garantire un futuro all’Italia e ai suoi giovani

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Quando questa mattina ho letto un po’ di rassegna stampa sui dati drammatici dei Neet, cioè sui giovani che non studiano né cercano un lavoro, ma vivono di precarietà, mi sono venuti alla mente Bill Gates, Steven Jobs, e poi Zuckerberg, Page e Brin.

Per quale motivo? Perché, nell’ordine, hanno fondato la Microsoft a 20 anni, Apple a 21 anni, Facebook a 19 anni, Google a 25 anni.

Tutto questo per dire che quel dato sui Neet, assieme all’altro sui giovani in gamba costretti a lasciare l’Italia per cercarsi un futuro, riassume la tragedia, soprattutto italiana.

L’Italia, cioè, è un mondo in mano ai vecchi. Un Paese vecchio nelle mani dei vecchi. Dei nonni, più che dei padri. E lontano dai figli.

Basta dare un’occhiata all’età media dei componenti dei cda, pubblici e privati, e quella dei dirigenti, pubblici e privati.

L’età dei membri dei cda è, ad esempio, in media di 15 anni superiore alla media OCSE.

I giovani italiani, nonostante le uscite previste dalla 3+2 universitaria, oggi in forte crisi, entrano nel mercato del lavoro in media tre anni dopo i coetanei europei.

Abbiamo la classe insegnante e dirigente più vecchia d’Europa. L’insegnamento, nelle scuole e nelle università, è di fatto precluso ai giovani capaci e meritevoli, fatte salve eccezioni, legate soprattutto alla carenza in certe classi di concorso. E non c’è valutazione di merito per chi già lavora. Domina il finto egualitarismo. Perché i sindacati, lo dobbiamo dire, difendono i già garantiti. Per cambiare i sindacati, quasi tutte le sigle, e renderli in linea con la difesa della qualità delle professionalità, basterebbe introdurre due piccole modifiche: limite ai mandati e decadenza in caso di pensionamento.

I docenti sotto i 30 anni sono l’1%, e l’età media dei ricercatori universitari è sui 40 anni.

A parole, tutti sostengono l’importanza dello studio, della formazione. Nei fatti, però, abbiamo un quarto delle borse di studio della Francia, e spendiamo per il diritto allo studio dei giovani la metà della media OCSE, cioè dei Paesi più avanzati.

L’Italia merita un futuro, e non c’è futuro senza qualità. Se vogliamo dare una speranza alle nuove generazioni. Perché i Neet dicono che hanno perso, soprattutto, la speranza in un futuro possibile.

Finora, invece, le politiche assistenzialistiche continuano a privilegiare i padri e i nonni sui figli e nipoti.

Proposte?

Anzitutto, mi sento di dire, abolire il valore legale dei titoli di studio, un peso ed un residuo del passato che penalizza i giovani capaci e meritevoli. E sostituirlo con un sistema di accreditamento svolto da agenzie indipendenti, che assicuri la verifica del valore reale dei corsi di studio, superiori ed universitari, a protezione degli studenti e di reali pari opportunità.

L’esame di maturità, tanto per capirci, non ha più senso, al di lá del solo “rito di passaggio”, cioè esperienza psicologica più che culturale.

Ma pensiamo ad altre proposte, al centro dei troppi dibattiti.

In poche parole, non si deve tutelare il posto fisso, ma la persona. Perché l’occupazione giovanile non nasce mantenendo rigido il mercato del lavoro (quante polemiche sull’abolizione dell’art. 18 e sul Jobs Act?), ma dalla sua flessibilità affiancata a nuove garanzie. Pensiamo ad un reddito minimo bilanciato da una formazione parallela e obblighi progressivi di accettazione delle proposte di lavoro.

Esperienze in Europa, oltre alla nostra Garanzia Giovani, ve ne sono.

Basta che si incominci, per abbattere certi steccati ideologici ed assistenziali che oggi sono la causa prima dei dati sulla disoccupazione giovanile.