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La matematica vissuta insieme alle generazioni che cambiano. 25 anni di aula, tra equazioni e relazioni umane

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Sono quasi venticinque anni che insegno matematica. Ho attraversato molte scuole, molti indirizzi, molti mondi. Dalla scuola media agli istituti tecnici, dai professionali ai licei: scientifico, classico, delle scienze umane, delle scienze applicate, sportivo, economico-sociale. E, attraverso tutte queste esperienze, credo di aver incontrato la più vasta umanità di studenti e famiglie che si possa immaginare. È questo che mi ha insegnato la verità più profonda: la matematica non si apprende semplicemente perché qualcuno la spiega. Si apprende – o meglio, si ama – perché qualcuno te la trasmette con uno sguardo, con fiducia, come se davanti a sé vedesse un’opera d’arte ancora tutta da dipingere, in ogni circostanza, con ogni partenza possibile.

Ho avuto studenti con un potenziale geniale, oggi impegnati nella ricerca scientifica. E molti altri che non avevano la minima idea di quale fosse il loro valore. Perché il rapporto con la matematica non è neutro: è un campo minato di ansie, convinzioni limitanti, fughe.

Chi pensa di non essere portato, spesso cerca solo di scappare. Lo fa perché da piccolo ha incontrato un insegnamento che non l’ha accolto, che non l’ha acceso. E così si è convinto di essere sbagliato.

Spesso sento dire che i ragazzi di oggi sono fragili, aggressivi, maleducati, abbandonati. Io dico: basta con queste generalizzazioni. Non parlate di cose che non conoscete. In venticinque anni di insegnamento ho incontrato famiglie straordinarie, spesso stremate ma presenti, che fanno di tutto per crescere figli sani, felici, istruiti, in un mondo sempre più complesso. Non meno presenti di un tempo: più affidate alla scuola, più coinvolte, più preoccupate.

I nostri genitori, la mia generazione, vivevano nel silenzio dell’autorità. Si stava zitti davanti al professore. Si obbediva ai genitori. Non si discuteva. Non c’era il cellulare. Dicevamo “ciao” la mattina e tornavamo la sera, e bastava. Nessuno sapeva in tempo reale se avevi preso un voto basso, se eri arrivato tardi, se avevi sbagliato. Avevamo tempo per elaborare la nostra realtà e con questo tempo imparavamo a modulare le emozioni.

Oggi i ragazzi sono iper-controllati, raggiungibili in ogni momento. Ma proprio per questo meno liberi, meno capaci di gestire la loro autonomia, sempre più ansiosi, disorientati. Quando lavoravo con i più piccoli, mi chiedevano di organizzare per loro anche i giochi. Non sapevano come gestire il proprio tempo libero, con quel terrore di annoiarsi tipico di chi dipende dal mondo esterno o dagli strumenti digitali.

E allora ho capito: come docente, dovevo organizzare l’apprendimento, ma farlo bene, creare perimetri chiari, nei quali ciascuno potesse riconoscersi, con le proprie modalità, caratteristiche, fragilità e potenzialità. Perché quando loro non si ritrovano in quello che si sta facendo, non si sentono più adeguati. E quando non si sentono più adeguati, perdono la fiducia in se stessi.

E io l’ho compreso chiaramente, negli anni: a nessuno piace non essere bravo in matematica. Tutti vorrebbero esserlo. Il problema è trovare la propria “bravura”, e qui entriamo in gioco noi docenti.

Oggi, insegnare matematica non è come un tempo. I ragazzi sono diversi. L’accesso a internet, le tecnologie, il ritmo della vita: tutto è cambiato. Sono veloci, reattivi, ma più fragili nel trattenere l’attenzione. Hanno mille stimoli ma poca rielaborazione. Spesso mi chiedono: “Professoressa, ci aiuti a concentrarci”. Capiscono in classe, si entusiasmano, ma poi davanti alla verifica crollano. Non solo per l’ansia – che in matematica è sempre in agguato – ma perché non riescono a sostenere l’impegno della performance personale.

Si perdono dopo 30 minuti. La soglia attentiva si abbassa, il pensiero rallenta. E allora? Non si può insegnare come si faceva una volta. Oggi un insegnante deve essere attore, regista e guida.

Devi recitare con entusiasmo, generare energia, stare in piedi, sporcarti le mani con la lavagna, con gli esercizi, con gli errori. Devi dirigere una scena che cambia ogni giorno: capire chi hai davanti, creare immagini, accendere adrenalina, lasciare il segno. E soprattutto, devi essere credibile.

La credibilità non si insegna, si vive. Non puoi chiedere serietà se non la dimostri. Non puoi pretendere fiducia se non sei disposto a darla. Non puoi insegnare l’amore per la cultura se non sei, tu per primo, immerso nella cultura viva, concreta, umana e non ne sei innamorato.

Ciò che conta è avere ben in testa il proprio ruolo: non un amico e nemmeno un genitore. Sei professore: un adulto di riferimento che accompagna, protegge, insegna con la vita oltre che con la materia. A chi mi chiede: “Ma allora bisogna trattare ogni studente in modo diverso”? Rispondo: Sì.

Perché, come scriveva Don Milani in “Lettera a una professoressa“, “non c’è nulla di più ingiusto che fare parti uguali fra disuguali”. L’ho imparato negli anni, l’ho visto negli occhi dei miei alunni. Non si può insegnare a tutti nello stesso modo, perché non partono tutti dallo stesso punto. C’è chi ha genitori laureati e chi vive in silenzio emotivo. C’è chi ha mezzi, tempo, strumenti… e chi ha solo la scuola.

Per questo, a volte vorrei abolire i voti numerici. Perché il voto – soprattutto se è un numero – rischia di standardizzare, di fare proprio quelle “parti uguali” che non hanno senso. Il mio 7 è il 10 di qualcun altro. Il mio 10, per un altro, è il frutto di una fortuna di partenza.

Quest’anno, non ho dato nessun debito. E ne vado fiera. Odio perfino la parola: debito. Certo che mi arrabbio se non studiano, eccome! Sono una prof che pretende molto, tutti lo sanno. Ma poi, alla fine, l’onere dell’apprendimento è il mio. Se arriviamo a giugno e qualcuno è rimasto indietro, è anche mio il fallimento.

Laddove c’è un recupero possibile, non ci può essere un debito.

Il recupero è mia responsabilità.

C’è un’altra cosa che odio: dover scaricare l’onere dei compiti sulle famiglie. È troppo facile dire “non ha fatto i compiti” e addirittura, per questo motivo, procedere con una valutazione negativa.

Io i compiti li assegno, perché è importante, come dicevo, la rielaborazione personale di quanto fatto insieme in classe, ma il giorno dopo li correggo insieme a loro, ne parliamo e quando ce n’è bisogno io li seguo anche a distanza. Capita frequentemente che qualche mio studente mi scriva perché si è bloccato durante l’esecuzione di un esercizio a casa. Quando io posso, rispondo sempre, fornendo spunti, input e, perché no, quella piccola parola di incoraggiamento per poter proseguire in autonomia.

Quest’estate, la mia futura quinta delle Scienze Umane, leggerà Stephen Hawking. Ma sanno che ci sono. Mi scriveranno se non capiranno qualche passaggio o semplicemente se vorranno commentare con me qualsiasi riga: è questo il vero compito delle vacanze! E questo avviene sempre, durante tutto l’anno scolastico.

Mi scrivono. Mi fermano nei corridoi. Mi cercano nelle altre classi. Hanno i miei contatti e li usano sempre e solo per motivi didattici: perché i ragazzi sono seri, se tu sei serio.

La serietà si costruisce con l’esempio, non con l’autorità. La credibilità si conquista con la coerenza, ogni giorno. E se sei bravo a motivare, i tuoi studenti ti seguono, qualunque iniziativa didattica, anche Impegnativa dal punto di vista didattico, tu proponga.

Soprattutto i ragazzi di oggi lo capiscono se sei un professore a cui “importa” di loro. E a me importa tantissimo: mi importa da dove partono, ma ancora di più dove possono arrivare. E mi importa di tutti. Nessuno escluso.

Emma Castelnuovo diceva che la matematica non si insegna raccontandola, ma facendola vivere. È l’esperienza che conta.

E Piaget ci ha insegnato che l’intelligenza si costruisce nell’interazione, attraverso l’adattamento, il fare, l’errore, la scoperta. Non è un pacchetto da scartare, è un movimento, ed è nostro compito stimolarlo, proteggerlo, accompagnarlo.

E allora sì, io non posso insegnare matematica solo spiegandola. Devo viverla con loro. Devo saltare, ridere, sporcarmi le mani ai vestiti, trasferire tutto l’entusiasmo che ho nel cuore, mischiando le equazioni al caffè, le espressioni alle sneakers, i problemi allo sport, la fisica alla cucina e tutto quello che mi viene in mente improvvisando e chiedendo a loro di restare con me, generando quel flusso libero di coscienza che alla fine portano a più di un’ora di concentrazione.

Ed eccolo, l’obiettivo: costruire un’esperienza, non “fare un programma”!

Bene.

Non credo che arriverò a tutti. E forse non piacerà quello che avevo da dire. Ma, come sempre, ce l’avevo nel cuore. E l’ho buttato giù senza neanche pensarci.

Perdonatemi.

Elena Sternini