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Lettera aperta ad un docente avvocato: il 1° settembre firma il contratto e poi torna al suo paesello

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Gentile professore,

Non so se ne sia accorto, ma la scuola è cominciata. Come sempre, con tante buone intenzioni ed inedite responsabilità, ma anche con vecchi vizi.

Non so, lo ripeto, se lei se ne sia accorto perché, dopo aver firmato il contratto, che determinava in modo consensuale il suo servizio, lei se ne è subito tornato nella sua regione del nostro Sud. Accampando generiche ed inverificabili motivazioni di famiglia.

Guardi, glielo assicuro: questa mia missiva non è figlia di un antico pregiudizio del Nord contro il Sud, perché, come sempre, contano le persone, non il loro paese di provenienza, ed “il bon ed il tristo”, come si dice dalle mie parti, ci sono dappertutto.

Ma questo non ci esime dal dire che è ora di dire basta. Di dire basta, cioè, all’uso strumentale ed individualistico, tanto da confondere diritti e privilegi, delle norme e dei contratti.

Lei il primo settembre ha firmato un contratto, e con questo contratto si assumeva e condivideva diritti e doveri, mentre, appena firmato e preso servizio, se ne è tornato subito al suo paesello.

Ed i doveri e le responsabilità, da condividere nella comunità scolastica come in qualsiasi ambiente di lavoro? Responsabilità verso i nostri ragazzi e le loro famiglie, come verso il nostro tessuto sociale.

Queste cose dovrebbero essere scontate, visto che insegna diritto ed ha detto di fare professione di avvocato. Ma credo che si sentirà in difficoltà quando entrerà, prima o poi, in classe, si presenterà, cioè, ai ragazzi, tentando di giustificare le sue assenze difficilmente giustificabili.

Sì, perché di fronte al mio rifiuto della sua richiesta di aspettativa, motivato dalla necessità di garantire un servizio continuativo agli studenti, quasi d’incanto la sua richiesta l’ho vista tramutarsi in certificato medico. Documento, ovviamente, non contestabile nè da parte mia verificabile. Tutto strumentale, mi sono chiesto, a questo mondo?

Che cosa risponderà ai ragazzi, che “il mondo è fatto per i furbi”, che “fatta la legge, trovato l’inganno”, che “tutti fanno così”?

Se questo è il risultato dello studio del diritto, comprendiamo bene perché in Italia le cose non funzionano, perché tutti si lamentano e pochi fanno.

Posso dire? Non sono d’accordo. Non è cioè vero che i pochi che gridano siano la maggioranza. Anzi, credo che la maggior parte dei docenti come delle persone protagoniste negli altri mondi vitali sono perbene, che non pensano cioè solo ai propri tornaconti, che si comportano con coscienza. Il problema è che non fanno notizia.

Che cosa ne dice di una sua lezione pubblica sul rapporto tra etica e diritto, e sul nesso tra diritto individuale e diritto pubblico?

Forse la cosa più importante introdotta dalla tanto contestata Buona Scuola è la “chiamata diretta”, cioè la possibilità offerta ai presidi di valutare, con un CV ed un colloquio, come avviene in tutto il mondo del lavoro, la plausibilità di una offerta di insegnamento. Il problema è che questa novità è stata accompagnata da una grande sanatoria, compresa la conferma delle graduatorie che sono, giusto che ce lo diciamo, forme di matematismo poche rispettose della qualità reale di talenti e di competenze concrete. Non basta più, cioè, la sola anzianità di servizio.

La sua nomina, da lei sottoscritta, è frutto di questo matematismo.

Ed il suo comportamento dice quanto sia vero che questa modalità di nominare i docenti seguendo le graduatorie sia superata, obsoleta, poco rispettosa del valore e della dignità delle persone.

Posso assegnarle un compito? Da insegnante di diritto, quali forme più corrette di individuazione del personale, oltre ai canonici concorsi triennali, lei proporrebbe, per le nomine dei docenti dei suoi figli?

Che dire, a questo punto? Un bell’atto di coscienza con la semplice presa di servizio, secondo quanto già previsto dal contratto da lei sottoscritto.

Con cordialità

Il suo preside