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Liliana Segre: a scuola dire la verità ai giovani

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Liliana Segre, che ha già tante volte spiegato quel «dolore indicibile», che fu la Shoah, ai ragazzi delle scuole, sostiene che anche oggi bisogna dire con uguale sincerità, pacatezza e coraggio cosa è successo a Parigi.

Segre fu internata quattordicenne nel campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau con la matricola 75190 stampata sull’avambraccio, dopo essere partita il 30 gennaio 1944 dal Binario 21 della Stazione Centrale di Milano.

“Bisogna avere il coraggio di spiegare ai nostri ragazzi cosa è accaduto a Parigi. Dicendo la verità e senza ripararli dal dolore e dal pericolo. Perché le nuove generazioni qui in Italia sono state troppo protette e isolate dal concetto di sofferenza, che invece fa parte reale, concreta della vita di tutti noi… Una responsabilità che hanno sia i genitori che i professori” .

E oggi riflette su quale sia il modo più adatto per raccontare ai ragazzi un lutto collettivo contemporaneo, quello di Parigi.

Intervistata dal Corriere della Sera, la Segre precisa:  “Io non mi sono mai trovata ad affrontare questioni contemporanee. Ho sempre raccontato la mia storia, riscontrando spesso quanto i ragazzi siano disabituati a comprendere cosa sia accaduto con la Shoah nel Novecento, e che oggi si ripropone sotto altre forme”. E di fronte a simili tragedie, sottolinea,  “occorre trovare la forza di andare avanti partendo prima di tutto da se stessi. E che non bisogna mai girare la faccia dall’altra parte, come capitò a noi ebrei mentre venivamo deportati. Subito dopo raccomando di non odiare mai. Perché l’odio genera altro odio. Ultima cosa. Mai generalizzare”.

E quindi, dice l’ex ragazzina deportata dai nazisti, “mai generalizzare sull’Islam. Assurdo pensare che chi è fedele di quella religione è automaticamente un terrorista. Noi ebrei abbiamo vissuto sulla nostra pelle quali possano essere gli effetti di una generalizzazione. È stata la chiave dell’antisemitismo. Perciò oggi bisogna trovare le parole giuste per spiegare, per distinguere”.

E per “insegnare” ai ragazzi i fatti di Parigi, i docenti devono dire la verità. Spiegare i fatti. Raccontarli senza troppe edulcorazioni. Le nuove generazioni sono completamente disabituate al dolore, al concetto stesso di tragedia. Sono tenute troppo al riparo, dai professori e dai genitori”, invece di “un eccesso di protezione che non aiuta i giovani a capire la realtà, quindi ad affrontarla un domani”, le scuole devono organizzare “viaggi a Dachau” con altri intenti: “La mattina le scolaresche vanno lì, ascoltano le guide, magari stanno attenti. E poi la sera… tutti in birreria. Ecco, quando io sento dire che si organizza una “gita scolastica” a Dachau mi indigno. Ma quale gita? Semmai è una lezione di Storia. O un pellegrinaggio. E poi, trovo insopportabile questa abitudine di “consolare” i giovani la sera dopo aver toccato con mano la follia dello sterminio nazista. Molto meglio non partire, non andare. La vita non funziona così. Dopo i dolori non arrivano le caramelle di consolazione, come si fa con i ragazzi di oggi “.

Per questo i professori, dice ancora Segre al Corriere, devono essere preparati: “Esistono due categorie di professori. Quelli che avvertono una autentica missione per un lavoro importante. E gli altri, impiegati statali che più banalmente insegnano. Ai primi tocca il compito di riflettere e di aiutare i ragazzi a farlo. Ricorrendo alla verità, senza spaventarli inutilmente e spingendoli ad andare avanti, a riprendersi in mano la vita. Partendo, come ho già detto prima, da se stessi. Perché è lì il motore essenziale: la forza va trovata dentro di noi, sempre e comunque. E nelle scuole si dovrà dire che la strada non è certo chiudersi in casa e lasciare fuori il mondo”.

E poi, dice ancora Segre “non è necessario essere giovani per non sapere cosa fare di fronte al mistero di tutto questo odio. Un mistero che spero abbia alla fine una soluzione”.