Home Archivio storico 1998-2013 Università e Ricerca Prof universitari: solo in Italia vecchi, onerosi e non valutabili

Prof universitari: solo in Italia vecchi, onerosi e non valutabili

CONDIVIDI
Se diverse migliaia di docenti della scuola italiana stanno valutando in questi giorni a nemmeno 60 anni se lasciare l’insegnamento a favore della pensione (c’è tempo fino al 26 gennaio), i colleghi universitari non sembrano nemmeno sfiorati da questa eventualità. Anzi. Da più parti si stanno accavallando e proposte per ridurre lo “scivolo” che gli permette di rimanere in ruolo sino a 72 anni.
Uno degli ultimi interventi in questa direzione è stato espresso da Giuseppe Caputo, ricercatore di Ingegneria chimica presso l’Università di Salerno dove insegna Combustione e presiede il gruppo di autovalutazione del corso di laurea in ingegneria chimica. Attraverso un articolo, pubblicato sul sito internet LaVoce.info, l’ingegnere ripercorre passo passo tutto l’iter che ha portato all’attuale costituzione del corpo docente universitario: il più vecchio d’Europa per numero di insegnanti ultra-cinquantenni. Fino al 1980 – scrive – i professori ordinari erano poche migliaia. Con l’approvazione della legge 382/1980, si è verificata un’ingente immissione di docenti che in modo quasi automatico sono stati trasformati da assistenti in ricercatori e in professori grazie a una valanga di concorsi ad personam: un vero e proprio ‘tsunami’ di assunzioni”.
Il risultato è che oggi il 55 per cento dei docenti di ruolo supera i 50 anni con una distribuzione dell’età diversa fra le tre fasce. Gli ultra-cinquantenni costituiscono l’82 per cento degli ordinari, il 55 per cento degli associati e il 31 per cento dei ricercatori. Se poi si osserva la fascia d’età degli ordinari, si rileva che il 45 per cento  ha più di 60 anni e che addirittura il 24 per cento ne ha oltre 65.
Ma quel che più preoccupa è il fatto che attorno ai 65 anni godono di stipendi altissimi a fronte, spesso, di una produzione scientifica modesta. Una condizione privilegiata che andrebbe adottata solo per un ristretto numero di professori meritevoli e di chiara fama. Come? Attraverso un metodo vicino al sistema anglosassone: quello di istituire la figura del professore emerito. Un titolo riconosciuto solo su richiesta motivata e attribuito solo per alti meriti scientifici dopo una rigorosa valutazione“. E per evitare abusi il numero massimo di professori emeriti andrebbe fissato per legge, ad esempio al 5 per cento del numero di professori ordinari della facoltà di appartenenza.
Premesso questo, secondo Caputo all’università serve una riforma che diminuisca rapidamente il numero degli ordinari, preservando al contempo la trasmissione del sapere fra le generazioni. Nemmeno il recente decreto legge 180/08 del ministro Gelmini ha risolto la questione perché fisserebbe le quote d’immissione dei giovani ricercatori nel sistema universitario, ma non affronta il nodo dell’età pensionabile dei docenti ordinari.
Che potrebbe risolversi solo con un intervento mirato di riduzione dell’età pensionabile.Annullando, di fatto, il decreto legge 503/1992, attraverso cui si è permesso ai docenti di rimanere in servizio per un ulteriore biennio oltre il limite di età, innalzando quindi l’età di permanenza in ruolo sino a 72 anni. A questa opzione favorevole si è aggiunta la possibilità di ottenere il fuori ruolo per tre anni in modo automatico. Un professore accademico, in pratica, può rimanere a svolgere corsi di perfezionamento o moduli all’interno dei master di specializzazione fino a 75 anni. Nel 2005 la riforma Moratti ha abolito la permanenza fuori ruolo e fissato a 70 anni l’età della pensione attraverso (con la n. 203 del 2005), ma solo per i nuovi assunti.
La grande maggioranza degli attuali circa 20mila docenti universitari rimarranno così in servizio, salute permettendo, fino ad almeno 72 anni. Il tutto mentre le liste di attesa dei dottorandi e dei ricercaotri si allungano a dismisura perché i posti da docente a disposizione sono sempre meno.
Senza contare che tutto ciò allo Stato costa tantissimo non solo dal punto di vista del mancato sviluppo culturale. Ma anche da quello prettamente economico. “I sette anni aggiuntivi rispetto ai comuni lavoratori che vanno in pensione a 65 anni – scrive l’ingegnere chimico autore dell’interessante articolo – costano agli atenei una cifra elevata: un ordinario a fine carriera costa al proprio ateneo circa 120mila euro all’anno, che per sette anni diventano 840mila. Con questa cifra si potrebbero pagare 28 ricercatori per un anno o, se si preferisce, un ricercatore per 28 anni. Se questo è il quadro non possiamo lamentarci, poi, se facendo la conta dei nostri docenti accademici scopriamo che il 57,5% è over 50, mentre in Francia è del 38, 9% e in altri Paesi (come Spagna e Germania) è addirittura sotto il 30%. E’ il caso di dire che l’ennesima stortura all’italiana rischia di far pagare un costo salatissimo ai nostri giovani: prima di tutto a quelli che devono ancora imparare (che hanno dei docenti avanti negli anni e spesso meno motivati), ma poi anche quelli che già lo hanno fatto e vorrebbero passare dall’altra parte della cattedra. Peccato che per sentirsi dire “avanti, c’è posto” debbano andare all’estero.