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TFR in busta paga: un altro spot

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Ogni singola novità, sbandierata come coraggiosa e innovativa per risolvere i problemi che da anni attanagliano gli italiani, in realtà ha un risvolto da valutare con attenzione. Facendo le somme di tagli e/o risparmi, si comincia così a capire quanto l’Istruzione dovrà “dare” per “avere” l’immissione in ruolo dei 140mila precari.

Fra le misure più controverse c’è quella del Tfr in busta paga, di cui Renzi è grande sostenitore. In via sperimentale, dal 1° marzo 2015 al 30 giugno 2018, i lavoratori dipendenti del settore privato possono richiedere al datore di lavoro di percepire una quota parte direttamente nella retribuzione.

La prima domanda è: perché 3 milioni e mezzo di dipendenti pubblici sono esclusi? Perché la misura serve a portare soldi allo Stato più che benefici al lavoratore. Lo Stato ci guadagna attraverso una maggiore tassazione. Nel caso dei dipendenti pubblici sarebbe invece una spesa.

A mettere a nudo con chiarezza tutte le insidie del Tfr in busta paga, è un intervento pubblicato sul Giornale di Vicenza di Andrea Cestonaro e Gianni Marcante della CGIL vicentina.

Per prima cosa, è evidente che quella dei “soldi freschi” derivanti da una quota del Tfr crea una grande disparità di trattamento fra lavoratori, fra chi può scegliere questa opzione e chi assolutamente no. E comunque, per chi può scegliere, a conti fatti la fregatura sarà maggiore del beneficio di 40 euro mensili calcolati su una retribuzione annua lorda di 20mila euro. Innanzitutto perché non sono soldi “in più”, ma soldi del lavoratore stesso percepiti anticipatamente. In secondo luogo, va tenuto presente che i soldi versati dalle aziende all’Inps per il Tfr servono per garantire le pensioni future, oltre che i servizi. Il che significa dare con una mano e togliere necessariamente con l’altra.

 

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L’anticipo comporta inoltre un aumento del carico fiscale che va ad incidere pesantemente sui fondi pensione complementari, che i lavoratori sono stati spronati a sottoscrivere in vista di pensioni sempre più misere, grazie al sistema di calcolo contributivo. Quindi i rendimenti saranno minori.

In pratica, grazie al meccanismo ben congegnato, quei lavoratori che oggi faticano ad arrivare a fine mese saranno tentati di scegliere qualche decina di euro in più mensilmente, di fatto però favorendo più lo stato che se stessi, pagando caro l’uovo oggi, e rimettendoci la gallina domani.

Va messo poi nel conto che a rimetterci saranno anche le giovani generazioni. Già attualmente si dibattono fra disoccupazione, lavori precari, “fughe” all’estero. In futuro avranno pensioni da fame e servizi super tagliati.

Se la manovra di Monti doveva servire a “salvare l’Italia” e quella di Letta a farla “ripartire”, la manovra di Renzi sembra finalizzata a mantenere il consenso (quello sfolgorante 41% di un modesto 58% che ha votato alle europee). Così, apparentemente meno tasse, una efficace spending review, il contrasto all’evasione, la riduzione del 70% del patto di stabilità per i Comuni, il bonus di 80 euro, il bonus bebè, il Tfr in busta paga, il Piano Buona Scuola ecc..Ma sotto sotto continuano i tagli lineari agli enti locali (senza distinzione fra abbastanza virtuosi, spendaccioni, scialacquatori), l’immissione in ruolo dei 140mila precari è finanziata da una somma di tagli, l’introduzione del “merito” per i docenti è pagata dagli stessi con l’abolizione degli scatti, i famosi 80 euro, accreditati con perfetta tempistica elettorale, sono suscettibili di dover essere restituiti in parte dopo che il Mef avrà fatto bene i suoi conti, il Tfr anticipato comporta una maggiore tassazione. Se al tempo del Governo Monti gli italiani si sono sentiti “cornuti e mazziati”, adesso che dire?

 

 

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